La legge 219/17, quella in materia di consenso informato e di Disposizioni anticipate di trattamento, rivela ogni giorno di più la sua incapacità di tutelare la vita del paziente. E la Corte Costituzionale con la sua ultima sentenza ha fatto emergere quella potenzialità eutanasica, che invano un gruppo di parlamentari nella scorsa legislatura aveva cercato di denunciare, durante il dibattito in Commissione prima e in Aula dopo. Nonostante il titolo della legge recit: “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, può accadere che non si rispetti né la prima, né la seconda parte di questo vincolo normativo, solo apparentemente chiaro, ma in realtà, come rivela l’articolato della legge, pericolosamente ambiguo. Altrimenti non si spiega perché una legge, che in teoria risponde al principio di autodeterminazione, nei fatti lasci il paziente vistosamente esposto alla volontà di altri. Soprattutto se e quando le sue condizioni personali riflettono una disabilità che gli rende impossibile pronunciarsi con chiarezza per dire cosa realmente vuole.



È quanto emerge dalla recente decisione del giudice di Roma, che ha decretato che si può porre fine alle terapie di pazienti in stato vegetativo, se hanno comunicato la loro volontà a un amministratore di sostegno, anche in assenza di Testamento biologico. La vicenda da cui è scaturito l’attuale provvedimento del tribunale ha per protagonista una persona, che è al tempo stesso compagno e amministratore di sostegno di una donna di 62 anni, da due anni in stato “vegetativo irreversibile”. Ora, pur ritenendo scientificamente discutibile, e inaccettabile, l’espressione stato “vegetativo irreversibile”, dal momento che la donna si trova in questa condizione solo da due anni, e ci sono diversi casi di persone che dopo un lasso di tempo analogo, si sono risvegliati, l’espressione più corretta dovrebbe essere quella di “stato di minima coscienza persistente da 2 anni”. Ma resta il fatto che a parte la testimonianza del compagno, contestualmente suo amministratore di sostegno, non esiste nessun documento scritto, né video o audio-registrato, che confermi quale fosse la volontà della signora.



La legge 219/17 pur nella sua profonda ambiguità, dice testualmente all’articolo 4, comma 6 che: “Le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie, […]. Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare”. Ora niente di tutto ciò sembra esserci nel caso in questione, salvo l’affermazione del suo compagno e amministratore di sostegno. Questi, nella sua testimonianza racconta come in passato, ogni volta che veniva a conoscenza di casi di soggetti in analoghe condizioni, la sua compagna aveva sempre dichiarato che non avrebbe mai voluto vivere in quelle condizioni. Un pensiero manifestato anche ad altri familiari e di cui sembra fossero a conoscenza anche gli amici più intimi della donna.



E sono proprio loro che, in totale assenza di documenti scritti, sono stati chiamati a testimoniare per ricostruire la volontà che la donna non può più comunicare. Sulla base di fatti riferiti, ma non supportati da alcuna documentazione oggettiva, l’amministratore di sostegno ha presentato al giudice tutelare un ricorso per procedere al distacco dai trattamenti, secondo quanto previsto dalla legge 219/17. L’articolo 3 della medesima legge, al comma 5, però prevede che si ascolti anche il medico: “Nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l’amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all’articolo 4, o il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie”.

Nel caso in questione, nulla si dice però di quale sia l’opinione del medico, se sia stato consultato anche in merito alle cure palliative da somministrare sempre e comunque alla donna. Mentre la sedazione profonda, che pure l’amministratore ha chiesto e il giudice ha autorizzato, risponde a criteri diversi e, secondo il parere del CNB, fa riferimento a un dolore refrattario ai vari trattamenti e prevede la somministrazione intenzionale di farmaci …. in condizioni di malattia terminale inguaribile in prossimità della morte. In questo caso però manca sia il riferimento all’intensità di un dolore divenuto ormai insopportabile, sia il riferimento alla prossimità della morte. Per cui la sedazione profonda, richiesta dall’Amministratore di sostegno, viene assimilata a una sorta di eutanasia, in cui si somministreranno alla paziente farmaci che ne accelerino la morte. Ma nonostante alcune vistose contraddizioni con la stessa legge 219/17, il giudice ha affermato che “l’amministratore di sostegno, accertata la volontà della persona amministrata, anche in via presuntiva, alla luce delle dichiarazioni rese in passato dall’amministrata alla presenza dello stesso amministratore, in merito al trattamento sanitario in questione, sia pienamente abilitato a rifiutare le cure proposte”.

In buona sostanza siamo davanti a un caso, a cui ne seguiranno probabilmente molti altri, in cui in assenza di una documentazione scritta, il famoso testamento biologico, i familiari, attraverso la figura dell’amministratore di sostegno, che può essere uno stesso familiare, potranno chiedere al giudice di porre fine alla vita di una persona in stato di minima coscienza. E questi potrà concederlo, solo sulla base di voci raccolte e non altrimenti documentate. Non a caso alcune agenzie di stampa uscite nel frattempo, hanno titolato: “Stop alle cure anche senza testamento biologico, se la volontà è stata già espressa”. Peccato che nulla si dica di chi fosse la volontà che chiede la morte del soggetto e di quale fosse invece la sua volontà, di come fosse stata espressa e di chi l’abbia raccolta e documentata.

La breccia aperta dalla legge 219/17 sta velocemente diventando una voragine. E se ieri DJ Fabo chiedeva di morire, invocando, in base al principio di autodeterminazione, un aiuto esplicito per il proprio suicidio, ribaltando l’articolo 580 del CP, oggi il giudice romano non tenendo alcun conto della mancata documentazione della volontà della paziente, in assenza di un qualsiasi testamento biologico, introduce il principio del “sentito dire” come prova necessaria e sufficiente per autorizzare la morte di una persona, nell’oscurità più completa di un documentato esercizio del principio di autodeterminazione.

Due situazioni diverse, due posizioni pressoché opposte rispetto all’esercizio oggettivo del consenso informato, ma tutte due con un unico sbocco: la volontà di morte conclamata ed esaudita. E meno male che il famoso Comunicato stampa della Corte costituzionale in merito alla vicenda Cappato-DJ Fabo concludeva dicendo: “La Corte sottolinea che l’individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell’ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nella ordinanza 207 del 2018”. A noi sembra che i rischi di abuso siano tutti in piedi, nessuno escluso…