Oltre 800 articoli in meno di 15 anni: è la cifra che fa capire quale sia stato l’investimento di energie che Giovanni Testori abbia profuso nella sua collaborazione al Corriere della Sera.

Aveva iniziato nel 1975, proprio l’anno della morte di Pasolini, con interventi sulla pagina dell’arte. Poi, a partire dal 1977, ha iniziato a scrivere in prima pagina come commentatore fuori dagli schemi. Il suo primo intervento, dal titolo “Ma il marxismo non ha il suo latino” aveva sollevato una serie di repliche e di polemiche, proprio come era accaduto per gli articoli di PPP.



Nel maggio 1978 un suo commento sulla tragedia di Aldo Moro, dal titolo “Realtà senza Dio”, era stato letto e appeso da gruppi di studenti cattolici fuori dalle università. Grazie all’iniziativa di alcuni di loro, Testori aveva incontrato don Giussani, stabilendo un rapporto di amicizia e stima profonda durato per il resto della sua vita.



Del Testori militante, voce fuori dal coro sulle colonne del primo giornale italiano, si parlerà questa sera al Centro culturale di Milano, per l’ultimo appuntamento del ciclo iniziato in settembre. Protagonisti Maurizio Crippa, giornalista e vicedirettore de Il Foglio, e Sandro Lombardi, grande attore, interprete di tanti lavori teatrali dello scrittore. Lombardi, tra l’altro, leggerà alcuni tra gli interventi giornalistici più significativi di Testori.

Riprendere in mano questi articoli ha un effetto spiazzante. Partiamo dal dato più concreto, la scrittura. Testori non arretra, non rinuncia alla sua natura. Affronta la realtà della cronaca, come spesso gli capita, nobilitandola con un dettato profondo e affascinante. Ha troppo amore e rispetto per la realtà, per non darle il meglio di cui lui disponeva: la sua scrittura. Non accettava di appiattirla per conquistare magari più consenso o più ascolto. Infatti non era solo una scelta stilistica. Come anche per Pasolini, questo era il modo di giocarsi totalmente nel rapporto con i fatti e con le cose.



Secondo aspetto spiazzante è il coraggio. Testori giocava sempre a carte scoperte e accettava in tanti casi il rischio di mettersi contro il mondo intellettuale al quale pur apparteneva. Ma non erano solo le sue posizioni a indisporre; irritava soprattutto il ribaltamento delle gerarchie che spesso operava. Molte volte, infatti, i suoi interventi prendevano spunto da fatti giudicati minori, da fatti di vita quotidiana. Erano “non notizie” intercettate nella vita reale che lui invece sapeva riscattare e trasformare in vere notizie, significative per la vita di tutti. Poteva trattarsi anche della semplice confidenza ricevuta da un pendolare sul treno delle Nord, che lui prendeva ogni mattina per andare dalla casa di Novate allo studio di via Brera, come in uno degli articoli che Lombardi leggerà, “Questo popolo”, dell’ottobre 1979.

La costanza dei suoi interventi, documentata dai numeri, ci testimonia come non si tirasse mai indietro, pur trovandosi in posizione esterna di collaboratore “nobile”. Ogni spunto per lui era degno di essere affrontato e sviscerato.

C’era anche un altro fattore che lo teneva mobilitato: era il gusto della sfida. Il piacere di rompere le uova nel paniere dell’intellighentzia nostrana, irrompendo a volte con una sfrontatezza e anche un’ironia che lasciava i suoi interlocutori quasi interdetti. Gli piaceva portare allo scoperto le ipocrisie, mettere in discussione i dogmi intellettuali inattaccabili, violare la pace dei salotti. Insomma, anche lui, come PPP, era un corsaro.

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