Caro direttore,
di recente ho assistito alla messa in scena – a distanza di 35 anni dalla prima – di In Exitu, una delle opere più scandalose e brucianti, direi quasi disturbanti, di Giovanni Testori. Accanto a Franco Branciaroli non c’era, come vidi 35 anni fa, il narratore impersonato direttamente da Testori, ma solo una (credo sua) giacca, che ne evocava potentemente la presenza. Spettacolo, dicevo, scandaloso, incentrato sull’odissea di Gino Rigoldi, eroinomane che termina la sua esistenza in una latrina della Stazione Centrale di Milano dopo un’ultima dose di eroina. Ma ecco che nel fondo più fondo di quella miseria e di quell’abbandono Gino viene abbracciato da Cristo, a cui più o meno consapevolmente aveva teso per tutta la vita con ogni fibra del suo essere.



Mentre assistevo allo spettacolo, soprattutto nel momento del commovente finale mi tornava in mente insistentemente e con grande tristezza lo sguardo di Filippo Turetta, l’autore dell’atroce omicidio di Giulia Cecchettin, la sua ex fidanzata. Mi ritornava in mente questo ragazzo che ora passerà giustamente molti anni in carcere, mi tornavano in mente i suoi occhi, uguali a quelli dei miei figli, a quelli dei ragazzi che incontro per strada, uguali ai miei. In alcune fotografie di Filippo pubblicate sulla stampa si vedono questi occhi ridenti, allegri, contenti di entrare nella vita, certi che la realtà – nel lungo futuro che lo aspettava – avrebbe mantenuto la promessa che il suo cuore desiderava.



Ora questo ragazzo, che ha portato all’estremo dell’omicidio il male oscuro della brama di possesso che alberga in ciascuno di noi, è come se si trovasse la strada della vita definitivamente sbarrata. Come se la realtà gli dicesse inesorabilmente: tu sei destinato all’infelicità, per te non c’è più nulla. Forse il medesimo sentimento di abbandono, sia pur in circostanze molto diverse, che agitava il cuore del testoriano Gino nel suo ultimo viaggio.

Eppure, come per Gino nella notte disperata di Milano, auguro a Filippo di fare un viaggio. Un viaggio lungo e doloroso dentro la percezione e consapevolezza del suo male. Gli auguro, al fondo di questo viaggio, magari implorando come Gino morente i nomi del “papà” e della “mamma”, di incontrare un abbraccio infinito che gli dica: Filippo, tu non sei fatto per il male. Hai fatto tanto male ma il tuo cuore non è stato voluto per questo. Ora lasciati abbracciare e torna a casa insieme a me.



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