Un ciclo di incontri coordinati da Luca Doninelli al Centro Culturale di Milano, che si protrarranno fino al marzo 2022, ripensa alla figura e all’opera di Giovanni Testori (1923-1993), di cui si sta avvicinando il centenario della nascita.

“Scrittore, giornalista, poeta, critico d’arte e letterario, drammaturgo, sceneggiatore, regista teatrale e pittore” lo definisce (per quel che conta) Wikipedia. E già questo diluvio di qualifiche suggerisce la complessità del suo ingegno. Nel campo dell’arte, poi, la sua lezione è più che mai necessaria oggi, perché Testori era uno di quei critici, rari, che hanno seguito la raccomandazione di un altro grande critico, Edoardo Persico, morto in miseria a 35 anni alla metà degli anni trenta: “Bisogna parlare alla gente di cose vive, di quelle cose che urgono dentro di noi”. In tempi di critica sempre più filologica e “scientifica”, come oggi si ama dire, si sente il bisogno anche di una critica filosofica e umanistica come quella testoriana, che sappia muovere dall’arte per agitare temi e questioni che riguardano tutti. Senza nulla togliere all’importanza della ricerca specialistica (una cosa non esclude l’altra, anzi) non bisogna dimenticare che l’arte non è nata per far dire ai critici d’arte che la luce piove da destra, o che un’opera è stata esposta per la prima volta nella tal mostra. Lo sguardo minuzioso del ricercatore-entomologo può, anzi deve, convivere con uno sguardo più vasto.



Per avere un’idea della critica di Testori rimandiamo alle sue pagine, che uniscono al valore esegetico un’intensa bellezza poetica. Qui vorremmo invece darne un esempio tratto non dai suoi libri, che andrebbero letti per intero, senza scegliere la scorciatoia dello stralcio, ma da una sua conferenza del 1978 ad alcuni studenti liceali. L’intervento, nato in occasione di una mostra di Ennio Morlotti alla Galleria Bambaia di Busto Arsizio, è stato poi trascritto e pubblicato postumo (Morlotti o la rivincita della pittura, Edizioni Bambaia, 2002). Certo, il linguaggio orale non può racchiudere i “molti incanti” – come Raboni diceva della prosa di Proust – della pagina scritta, ma ci dà comunque un saggio, e un esempio, di come si possa parlare di cose vive.



Testori conosceva bene Morlotti, a cui lo accomunavano una geografia di affetti (il pittore era nato a Lecco nel 1910), una dichiarazione programmatica (entrambi avevano firmato nel 1946 il Manifesto del realismo. Oltre Guernica) e soprattutto vincoli di amicizia e abitudini di frequentazione. “Lo ricordo a Sormano, nella Valassina, lungo, magro, attaccato alla sua disperazione come un ragno al filo della sua bava” ha scritto di lui. E anche: ”Salivo due o tre volte alla settimana a trovarlo [negli anni cinquanta], insieme assistevamo al delirio della sera, alle sue esultanze, al suo sfinire, alla sua pace”.



Nella conferenza lo scrittore muove da due paesaggi morlottiani: Mondonico, 1942, e L’Adda a Imbersago, 1956. Nel primo “non c’è quasi nulla, il cielo si attacca alla terra, come se ciò che interessa a Morlotti fosse toccare il grembo del paesaggio, con tutta la malinconia non solo dell’ora ma del momento storico. Erano anni di guerra, anni di dolore e di miseria…”. Del secondo ricorda un aneddoto. Una volta, in casa di Longhi, Morandi aveva detto di Morlotti: “Va dentro nel paesaggio come una gallina”. E Testori così commenta: “È bellissima questa immagine: va dentro, cioè non lo guarda come facciamo noi, da fuori, ma lo guarda da dentro, diventa lui stesso paesaggio, parte del paesaggio. Io credo che la grande felicità di Morlotti, nei momenti in cui è felice, sarebbe sentirsi pianta, albero, erba”.

Testori si sofferma infine su un Teschio del 1974, in cui amava vedere l’influsso non solo di Cézanne, ma anche del Seicento lombardo, “quel Seicento dove, tra Cerano, Morazzone, Serodine, Procaccini, Tanzio e Daniele, i teschi gemono per ogni dove”. Ricordando una dichiarazione di Morlotti (“Dopo aver per tanto tempo tentato il sublime, finalmente felice sono arrivato a essere concime”), osserva che quel Teschio “è tanto pieno di vita quanto gli altri paesaggi sono pieni di dolore, cioè anche meditando sul teschio non è la morte che vince, ma è proprio il trasformarsi dell’uomo e della natura in concime, cioè in nuova vita, in nuova primavera”. Dove saper vedere in un teschio una primavera, come fa Testori, non è solo una lezione di arte, ma anche di fede e di vita.

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