La combinazione fra il conflitto in Ucraina e la ripresa della domanda globale a seguito dell’allentamento dell’emergenza pandemica sta scatenando un’ondata di inflazione che ha impatti sempre più significativi su molti di noi, in Italia come in gran parte del mondo. Fra i tanti settori in cui si sono registrati forti aumenti di prezzi, quello dell’energia e quello agroalimentare assumono particolare, e preoccupante, rilievo per i conti delle nostre famiglie e delle nostre imprese.
In Italia, il prezzo all’ingrosso del gas naturale si aggira attorno ai 100 euro al MWh, quando dodici mesi prima sfiorava appena i 20; quello dell’elettricità, anch’esso trainato dal prezzo del gas, ha raggiunto a marzo 2022 un livello medio superiore ai 300 euro al MWh, quando dodici mesi prima si attestava sui 60 euro.
Nel ramo alimentare, il grano tenero a marzo ha superato la soglia dei 400 euro a tonnellata – livello mai visto prima – a fronte di un prezzo al di sotto dei 250 euro nei primi mesi del 2021. Analogamente, grano duro, orzo, mais, zucchero, caffè, oli vegetali, così come tanti altri prodotti, hanno registrato nell’ultimo anno simili balzi di prezzo, in molti casi proiettandolo ai suoi massimi storici.
Di fronte alle tensioni inflazionistiche, i cittadini domandano interventi forti e appropriati volti a mitigare l’emergenza. Come concepirli? Non esiste una ricetta unica che funzioni sia per il grano che per il gas: per patologie diverse servono, infatti, diversi medicinali.
In particolare, l’intervento che in prima battuta può sembrare il più naturale, cioè il calmieramento dei prezzi per decisione politica che stabilisce un prezzo massimo, può funzionare per il gas, ma non per il grano, a causa delle differenze strutturali fra i mercati energetici e quelli agroalimentari. Il nostro gas, infatti, viene in buona parte (per poco meno del 40% del nostro fabbisogno) importato dalla Russia e viene venduto in condizioni di monopolio da Gazprom, società di proprietà del Governo russo. Le materie prime nel settore alimentare vengono invece prodotte ed esportate da una molteplicità di imprese in giro per il mondo: per il grano tenero, Russia e Ucraina esprimono rispettivamente circa il 20% e il 10% delle esportazioni mondiali (numeri simili si riscontrano anche per il grano duro). Inoltre, secondo analisi attendibili riferite al 2020, le prime dieci società esportatrici russe di grano gestiscono circa il 60% delle esportazioni russe: situazione concorrenziale dunque complessivamente ben diversa rispetto al monopolio di Gazprom.
In un settore sostanzialmente competitivo come quello agroalimentare calmierare i prezzi imponendone un tetto sarebbe controproducente, e rappresenterebbe un “rimedio” peggiore del male. Come già discusso in un precedente articolo, l’intervento rischierebbe di ridurre la disponibilità di grano in quanto i produttori, nel breve periodo, potrebbero destinare i prodotti a mercati esteri non soggetti a vincoli di prezzo e quindi più remunerativi. Allo stesso tempo, potrebbe favorire lo sviluppo di un mercato parallelo clandestino, nel quale prevarrebbero transazioni effettuate a prezzi di mercato che violano il tetto di prezzo. Nel medio termine, la misura, che andrebbe a ridurre la remunerazione per chi produce, scoraggerebbe poi gli imprenditori agricoli dall’effettuare investimenti finalizzati ad aumentare la produzione. Insomma, l’intervento potrebbe trasformarsi in una mela avvelenata che rischierebbe di impattare seriamente sull’approvvigionamento quotidiano di beni di prima necessità, come il pane e la pasta. Più opportuni potrebbero rivelarsi, nel contesto alimentare, interventi temporanei di natura fiscale che non impattano sui ricavi legati alle vendite.
Invece, in un settore a struttura monopolistica, come quello del gas russo, i prezzi dipendono dal potere contrattuale. Se l’impresa monopolista russa interagisce con diverse imprese acquirenti più piccole, queste ultime dovranno sostanzialmente accettare le condizioni economiche imposte dalla prima. Se, al contrario, come proposto dal Governo italiano, si stabilisse a livello europeo un tetto di prezzo nei confronti del gas russo (magari a un prezzo che rappresenta la metà del valore attuale), questo farebbe pendere la bilancia del potere negoziale a favore delle imprese europee. Una simile operazione, riducendo i profitti che la Russia ricava dalla vendita del gas, potrebbe anche avere valenza geo-politica, rappresentando un’efficace sanzione contro Putin.
Si obietterà che la Russia potrebbe reagire smettendo di vendere il gas all’Europa. Da un punto di vista economico, in realtà, il monopolista russo sa di non avere alternative – almeno nel breve periodo – rispetto alla vendita all’Europa. A Gazprom conviene dunque vendere a un prezzo basso, che pure gli garantisce profitti limitati, piuttosto che non vendere. La minaccia di non vendere potrebbe solo essere utilizzata dalla Russia strategicamente, per esercitare pressione sui Paesi europei affinché eliminino il tetto di prezzo. Ma se l’Europa si dimostrasse ferma nel mantenimento del prezzo calmierato anche di fronte alla minaccia, a Gazprom molto probabilmente converrebbe accettare le condizioni europee. Tale strategia di fermezza richiede dunque che l’Unione europea sia preparata a fare a meno del gas russo: tale disponibilità potrebbe, forse paradossalmente, consentirci di averlo a condizioni molto più vantaggiose.
Le misure amministrative, come i prezzi calmierati, possono funzionare in mercati non concorrenziali e con forte coinvolgimento degli Stati, nei quali è il potere contrattuale a farla da padrone. Nei mercati concorrenziali, invece, queste misure, solo all’apparenza ragionevoli, possono avere conseguenze altamente indesiderabili.
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