Lo scontro sul tetto del debito Usa come si configura dalle notizie di stampa non sembra essere solo uno scontro politico come fu nel 2011 sotto la presidenza di Obama, in cui all’ultimo minuto si scongiurò il temuto default, ma rappresenta di fatto una sorta di nemesi della politica economica e finanziaria americana troppo sopravalutata. Lo scontro sul tetto sembra sempre più una sorta di chewing gum che viene stiracchiato con il rischio che si rompa il suo equilibrio complessivo.



La situazione attuale si presenta profondamente diversa dai precedenti casi di rialzo del debito, e forse è necessario fare una sorta di cronistoria del rapporto del debito sia pubblico che familiare rispetto al Pil che si muove sempre più lentamente di quanto non cresca il debito pubblico.

Il tetto del debito pubblico americano venne introdotto nel 1917 tramite il “Second Liberty Bond Act” a causa delle spese ingenti sostenute durante la Prima guerra mondiale. Nel corso degli anni il tetto è stato innalzato più volte e dal 1960 è stato aumentato di circa 80 volte, più precisamente 18 volte sotto la presidenza di Reagan, 8 volte sotto quella di Clinton, 7 volte sotto quella di G.W. Bush e una volta, come ricordato, sotto la presidenza di Obama, con conseguente downgrade degli Usa da parte della società di rating Standard & Poor’s, che venne poi condannata dal Dipartimento della Giustizia Usa per manipolazione fraudolenta del rating.



Ma la dinamica profonda dell’andamento del debito pubblico e del correlato Pil mostra una crescente diversità di andamento a partire dagli anni 2000 in cui il Pil era di 8.000 miliardi di dollari e il debito di 5.500 miliardi. Ma è in particolare l’adesione alla finanza avviata nel nuovo secolo che fa sballare i conti. Fino al 1999 la vecchia legge Glass-Steagall Act aveva contribuito a tenere separate le banche d’affari da quelle commerciali garantendo un equilibrio tra economia reale e finanza, ma proprio a ridosso del nuovo secolo Greenspan abolì quella norma in base alla quale le due attività, economia e finanza, non potevano più essere esercitate dallo stesso intermediario, realizzando così la separazione tra banche commerciali e banche di investimento. La ratio di quest’ultimo provvedimento era quella di evitare che il fallimento dell’intermediario comportasse anche il fallimento della banca tradizionale: in questo modo si impediva di fatto che l’economia reale fosse direttamente esposta al pericolo di eventi negativi prettamente finanziari e speculativi. L’abrogazione della legge tramite queste modalità diede il via libera a quello che nel linguaggio assicurativo prende il nome di moral hazard (azzardo morale), cioè la percentuale di probabilità che un determinato evento coperto da assicurazione si verifichi, a causa della mancanza di attenzione posta nel prevenirlo da parte di chi ha stipulato il contratto assicurativo. Si preparava così il default del 2008 con la crisi di Lehman.



Sotto questa nuova direttiva la finanza prese potere, i derivati crebbero in modo esponenziale e si diede vita al mercato dei subprime: l’offerta di carta moneta venne aperta senza limiti a tassi prossimi allo zero, si determinarono le condizioni del distacco tra finanza ed economia reale, che venne delocalizzata in Oriente e si creò la grande illusione della ricchezza facile.

La dinamica del Pil accompagna la crescita anche se viene fatto prevalentemente sul terziario e non sulle attività produttive ma copre il debito: il Pil nel 2000 si avvicina agli 8.000 miliardi di dollari e il debito si mantiene sotto i 5.500 miliardi. La corsa all’acquisto della casa conquista gli americani alla ricerca del sogno della prima casa e tutto sembra funzionare tanto che lo stesso Greenspan afferma l’importanza dei subprime per l’economia Usa. Si crea l’effetto Ponzi e sotto la spinta all’acquisto della casa il mercato immobiliare cresce rivalutando gli acquisti, così il debito familiare passa dal 70% del Pil al 100% nel 2006. I mutui vengono concessi al 100% del valore della casa che si rivaluta, così le famiglie americane si servono del maggiore valore attribuito dal mercato alla casa per usare il plusvalore come garanzia di acquisti e si indebitano inconsapevolmente.

La bolla immobiliare scatta nel 2008 e la Fed interviene per salvare le cinque banche troppo grandi per fallire indebitando il Paese e portando il debito pubblico a 12.000 miliardi nel 2008 dai 5.500 del 2000, raddoppiando di fatto il debito stesso, mentre il Pil si mantiene sui 1.000 miliardi. Con l’operazione di salvataggio Ben Bernanke, Nobel nel 2012, cancella di fatto tutte le norme sul monopolio e l’antitrust e incoraggia il moral hazard dando l’idea, come si è visto oggi con la Silicon Valley Bank, che lo Stato interviene sempre per salvare il salvabile.

Nel 2011 il debito raggiunge i 14.000 miliardi arrivando poco sotto il 100% del Pil. Non dimentichiamo che a questo si aggiunge il debito familiare vicino al 100% del Pil, le bolle delle spese studentesche, delle vendite in leasing delle macchine e la sopravvalutazione dei valori di borsa che spinge Bloomberg a ritenere vi sia una sovrastima del 40% dei titoli del mercato azionario.

La delocalizzazione comincia a farsi sentire sull’andamento del Pil che rallenta la sua corsa per arrivare a oggi a essere circa 22.000 miliardi di dollari, mentre il debito si impenna arrivando a 31.400 miliardi. In altri termini, dal 2000 a oggi il Pil è cresciuto del 275%, mentre il debito di quasi il 600%, con un rapporto rispetto al Pil vicino al 135%. La diversa dinamica dei due valori si incrementa nel tempo facendo fare previsioni che nel giro di 10 anni il debito potrebbe crescere di quasi 20.00 miliardi, mentre il Pil fa una sua corsa che lo allontana sempre di più mettendo in evidenza gli squilibri ormai evidenti della dinamica monetaria ed economica degli Usa che sembrano vicino a un “redde rationem”.

Lo scontro tra repubblicani e democratici sull’innalzamento del tetto del debito sembra più un comperare tempo che una soluzione reale del problema e lo stesso limite temporale di due anni mostra il limite alla quadratura del cerchio. Questo maggiore debito deve essere collocato su un mercato che sta sperimentando un processo di de-dollarizzazione rendendo non scontato un collocamento che in tempi diversi sarebbe stato estremamente semplice e la stessa agenzia di rating cinese ha già provveduto a declassare gli Usa.

In questo contesto risulta quanto mai attuale la denuncia da parte di Jack Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, sugli errori di strategia politica ed economica del suo Paese. Infatti, in un recente discorso fatto alla Brookings Institution, ha elencato gli errori da risolvere ripensando di rifondare la leadership del Paese. Le sue osservazioni segnano un profondo cambiamento nel pensiero strategico ed economico americano, una confessione che gran parte di ciò che gli Usa hanno fatto e detto per decenni è stato sbagliato e un riconoscimento che è necessaria una dolorosa e urgente presa di coscienza dei problemi. È stato un ripudio delle indiscutibili verità della finanza e del libero mercato negli ultimi quarant’anni. Ha contestato l’idea che i mercati siano razionali, ha riconosciuto l’errore di favorire il settore finanziario rispetto all’economia reale che ha compromesso la manifattura Usa. Ha sottolineato come la finanza abbia determinato una disuguaglianza mortale da combattere per evitare il dissesto inesorabile, ha condannato la suicida delocalizzazione che ha fatto della Cina una potenza globale e tutte queste considerazioni dovrebbero fare pensare i repubblicani e i democratici sui veri problemi che la lotta sul tetto del debito nasconde ancora per poco.

Infine c’è da porsi qualche domanda sui tempi del recupero prima che la cittadinanza si infuri con uno scontro sociale devastante. Forse sono riflessioni che tutti dovrebbero fare a partire dai media che sembrano più interessati alla disputa sulla spartizione delle poltrone alla Rai: come siamo messi male.

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