L’incontro dell’altra sera tra Joe Biden e Kevin McCarthy non è stato sufficiente a sbloccare l’impasse sull’innalzamento del tetto al debito pubblico degli Stati Uniti, che rimane fissato a 31.400 miliardi di dollari. Lo speaker della Camera ha parlato comunque di un confronto produttivo e ha fatto trapelare ottimismo sulla possibilità di un accordo tra Repubblicani e Democratici.
Accordo che la Casa Bianca vuole raggiungere perché, come ha spiegato il Presidente in un tweet, se gli Usa facessero default, 8 milioni di americani potrebbero rimanere senza lavoro, i conti pensionistici subirebbero un duro colpo e il Paese cadrebbe in recessione. Abbiamo fatto il punto con Mario Deaglio, Professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino.
Professore, siamo di fronte a una questione di mera politica interna o ci possono essere conseguenze fuori dai confini americani?
Poiché il dollaro è la moneta utilizzata per le principali transazioni finanziarie e commerciali mondiali, ci sarebbero conseguenze anche fuori dagli Stati Uniti. Portato alle estreme conseguenze, un default minerebbe la fiducia nei titoli di stato americani come investimento diretto o come garanzia. Il dollaro si svaluterebbe, le importazioni diventerebbero più costose, con riflessi anche sulle esportazioni del resto del mondo, e questo aumenterebbe l’inflazione negli Usa.
Un ulteriore innalzamento del debito non finirebbe comunque per indebolire il dollaro?
Quando una moneta è dominante, più utilizzata negli scambi globali, per continuare a esserlo occorre che sia facilmente disponibile e quindi il Paese che la emette deve avere il bilancio in deficit. Ai tempi dell’Inghilterra imperiale fu necessario cercare oro in Sudafrica per fare in modo che ci fossero abbastanza sterline in circolazione.
E per gli Stati Uniti questo ruolo del dollaro come valuta di riferimento globale deve essere mantenuto…
Sì, quindi è molto importante che si raggiunga un accordo, anche se questa volta, rispetto al passato, sembra più lontano. Chiaramente bisogna che poi il Pil continui a crescere per fare in modo che l’aumento del debito/Pil resti contenuto.
Quanto questa partita si incrocia con le manovre di politica monetaria della Fed?
Direi parecchio, perché il primo obiettivo della Fed è tenere l’inflazione sotto controllo e l’aumento del debito, e quindi della quantità di moneta in circolazione, ne complica il raggiungimento. Ma, come detto prima, anche un indebolimento del dollaro in caso di default potrebbe portare a un incremento dell’inflazione, per cui non è facile trovare una quadra.
In entrambi i casi, per contenere l’inflazione la Fed dovrebbe alzare ancora i tassi e questo potrebbe creare problemi sia all’economia che al sistema bancario già piuttosto provato negli Stati Uniti…
Sì, è così. La situazione è piuttosto complicata e si intreccia con questioni di politica estera. Pensiamo anche a cosa vorrebbe dire non aumentare il tetto al debito rispetto agli aiuti militari all’Ucraina: gli Stati Uniti non potrebbero finanziare e sostenere Kiev a lungo. La Cina, intanto, sta approfittando di questa debolezza politica americana non solo rilanciando il ruolo internazionale dello yuan, ma anche rispondendo alla National Security Strategy della Casa Bianca con la messa al bando dei microchip dell’americana Micron.
Sarà difficile per Biden convincere McCarthy e i Repubblicani a dare il loro assenso all’innalzamento del tetto al debito?
Non è che i Repubblicani non vogliano in assoluto l’innalzamento. Il punto è che in cambio del loro assenso chiedono un taglio di alcune spese sociali che sostengono l’elettorato democratico. Si tratta, quindi, di arrivare a un compromesso nell’anno che precede il voto per la Casa Bianca. In Italia siamo abituati a una politica che non forza mai fino in fondo le situazioni, ma non è detto che in America sia così: abbiamo visto del resto cittadini che hanno invaso il Parlamento perché non soddisfatti del risultato delle ultime presidenziali.
(Lorenzo Torrisi)
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