Nel fine settimana Repubblicani e Democratici hanno raggiunto l’accordo sull’innalzamento del tetto al debito, che, secondo le ultime stime del Tesoro Usa, verrà raggiunto il 5 giugno. L’annuncio è stato dato dallo speaker della Camera Kevin McCarthy dopo un lungo colloquio telefonico con il Presidente Joe Biden. Il compresso prevede il taglio di alcune spese, pari a circa 10 miliardi dollari, il mantenimento dei livelli di quest’anno anche per il prossimo, quando si terranno le elezioni presidenziali, e un successivo incremento di circa l’1% nel 2025.
L’intesa di principio trovata da Biden e McCarthy dovrà essere sottoposta domani al voto della Camera. Come spiega Mario Baldassarri, ex viceministro dell’Economia e presidente del Centro Studi EconomiaReale di Roma e dell’ISTAO di Ancona, se l’accordo dovesse essere bocciato dal Congresso, «a perderci sarebbero sia Repubblicani che Democratici, perché nessuno sarebbe poi in grado di gestire le conseguenze di un default degli Stati Uniti».
Professore, non è la prima volta che gli Stati Uniti si trovano di fronte al rischio di sfondare il tetto al debito.
Sì, in effetti è una questione piuttosto ripetitiva e squisitamente politica. Ogni volta che c’è un Presidente Democratico e un Congresso in cui prevalgono i Repubblicani, quest’ultimi pongono la questione del tetto al debito per cercare di spingere i Democratici a tagliare la spesa pubblica. Quando invece il Presidente è un rappresentante dei Repubblicani, ma questi non sono maggioranza alla Camera o al Senato, sono i Democratici a porre il tema del tetto al debito per cercare di spingere i loro avversari ad aumentare le tasse. Alla fine viene trovato un compromesso, come sembra stia accadendo anche stavolta.
Sui mercati non sono però mancate fibrillazioni. Come mai?
Gli operatori di mercato conoscono la radice politica del problema e per qualche settimana approfittano per guadagnarci con impieghi speculativi sul debito americano. Consapevoli che non ci sarà mai un default del debito pubblico americano forzato da questo tiro alla fune tra Democratici e Repubblicani.
Fitch è arrivata, però, a mettere sotto osservazione il rating sul debito Usa…
Tuttele agenzie di rating sono private e spinte da interessi privati, quindi i loro giudizi quasi sempre hanno motivazioni politiche speculative, ovviamente sulla base di qualche elemento economico-finanziario. Va anche ricordato che hanno legami con grandi gruppi bancari e di consulenza aziendale. Quindi, quando esprimono un rating sono spesso in conflitto di interessi.
Questa partita sul tetto al debito si incrocia in qualche modo con le mosse della Fed?
Certo che si incrocia, perché chiaramente questa partita rappresenta un avviso di maggiore prudenza per la Fed.
Quindi, si fermerà nel rialzo dei tassi?
Si fermerà o rallenterà fortemente. Magari ci sarà un altro incremento di un quarto di punto o forse nemmeno quello.
Se mai dovesse esserci un default ci perderebbero di più gli Stati Uniti o il resto del mondo?
Si verificherebbe un cataclisma globale. Il che rappresenterebbe, però, l’ultimo atto di suicidio assistito da parte degli Stati Uniti e dell’Occidente, perché in questo cataclisma aumenterebbe ovviamente il potere della Cina. Siamo in una fase in cui tra l’altro, come avevo previsto 20 anni fa, a forza di non cambiare le istituzioni internazionali, come Fmi, Banca mondiale e G8, la Cina e i Paesi asiatici stanno cominciando a crearsi le loro istituzioni finanziarie indipendenti, perché è evidente che Pechino vuole che lo yuan abbia uno status di valuta internazionale come il dollaro. È per questo che, a mio avviso, occorreva creare una moneta unica occidentale unendo dollaro ed euro, che rimanesse come àncora internazionale. Invece l’altalena di cambio euro/dollaro offre l’opportunità a tutta l’Asia, con in testa la Cina, di sostituirsi o comunque affiancarsi, come sta già accadendo.
Mentre gli Stati Uniti hanno più volte trovato un accordo politico per innalzare il livello del debito pubblico, in Europa, come abbiamo visto la settimana scorsa, i Paesi vengono chiamati a ridurlo. Come mai questa differenza?
In Europa non ci sono gli Stati Uniti d’Europa, quindi non c’è un vero bilancio federale. Il bilancio dell’Unione europea è pari all’1,5% del Pil, quello federale americano è al 25% del Pil. Ne consegue che la Commissione “consiglia” o cerca di imporre regole ai bilanci nazionali, vincolando le scelte dei parlamenti nazionali. Ricordiamo i vecchi parametri di Maastricht. Ora sarà determinante quali nuovi parametri verranno decisi. Quello che appare finora, di fatto, cambia poco o nulla del vecchio Maastricht. Si allungano soltanto un po’ i tempi dell’aggiustamento, ma non si tocca il nodo centrale e cioè la fondamentale distinzione tra spesa pubblica corrente e investimenti pubblici. La parte corrente del bilancio dovrebbe essere in pareggio e il deficit dovrebbe essere tutto destinato a investimenti.
(Lorenzo Torrisi)
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