Apparentemente più debole degli altri anni, il concorso del Torino Film Festival 2020 ha comunque più di una freccia al suo arco e in questi giorni stanno scoccando con decisione. Una su tutte, Moving On, opera prima della coreana Yoon Dan-bi.
Sulla scia del maestro Yasujirō Ozu e dei suoi adepti contemporanei come Hirokazu Kore’eda, il film racconta di una famiglia spezzata – padre e due figli, madre lontana – che cerca di ricomporsi intorno al nonno, anch’esso vedovo, e alla vivace zia. Un’opera intima, quotidiana, che guarda i personaggi alla loro altezza (proprio come faceva il maestro) e fa dei piccoli scuotimenti della vita familiare il materiale drammaturgico per commuovere con tatto, con sguardo delicato e vicino ai bambini. Il miglior film che chi scrive ha visto finora.
Molto diverso per piglio, ma di buona fattura, il rumeno Poppy Field: diretto da Eugen Jebeleanu, il film racconta con tono nervoso e regia vibrante lo scontro interno, prima che esterno, di un poliziotto che deve celare la sua omosessualità ai propri colleghi, machisti e omofobi. Il privato e il pubblico si confronteranno in un crescendo da thriller che dimostra il buon controllo narrativo del regista.
Completamente fuori controllo sembra invece Fried Barry, film con cui il sudafricano Ryan Kruger realizza una versione degenerata di E.T.: il protagonista (strepitoso Gary Green) è un eroinomane che viene rapito dagli alieni e rispedito sulla Terra col corpo posseduto da uno di loro. Qui viene trascinato dalle persone e dalle circostanze a provare esperienze estreme e violente, lasciando però una paradossale scia positiva. Il film costeggia il cinema estremo (Combat Shock della Troma) e la demenza lisergica con qualche buona trovata visiva, ma non riesce davvero ad andare fino in fondo e si perde in risvolti un po’ banali. Più fumo che arrosto.