La Corte Costituzionale con recentissima sentenza n. 130 ha finalmente stabilito che il differimento della corresponsione dei trattamenti di fine servizio (Tfs) spettanti ai dipendenti pubblici cessati dall’impiego per raggiunti limiti di età o di servizio contrasta con il principio costituzionale della giusta retribuzione di cui tali prestazioni costituiscono un componente. Principio che si sostanzia non solo nella congruità dell’ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione.
La Corte sottolinea che il Tfs è un emolumento volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una particolare e più vulnerabile stagione dell’esistenza umana. Spetta dunque al legislatore, tenuto conto del rilevante impatto finanziario che il superamento del differimento comporta, individuare i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.
Possiamo dire che, finalmente, viene legittimato dalla Corte Costituzionale ciò che i lavoratori e le organizzazioni sindacali affermavano da diversi anni, vale a dire che esisteva un diverso trattamento tra lavoratori privati e pubblici con evidente danno economico di questi ultimi.
Questa è una storia italiana che nasce molti anni fa, quando per le solite esigenze di bilancio si decise di differire il Tfs dei pubblici dipendenti portandolo a 15 mesi (12+3 di lavorazione) nel caso di pensionamento di vecchiaia e addirittura a 27 mesi (24 +3) per il pensionamento anticipato. Il tutto ancora peggiorato sotto il Governo Monti che, per le stesse esigenze di bilancio, decise di corrispondere il Tfs ai pubblici dipendenti a rate annuali di 50.000 euro lordi.
Quando poi fu istituita la famosa “Quota 100”, per i soliti, stucchevoli, problemi di bilancio, si pensò di corrispondere il Tfs secondo i termini di pagamento sopra citati non dal momento del pensionamento, ma da quando il lavoratore avrebbe raggiunto i requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato. Questo ha fatto sì che quanto dovuto fosse corrisposto ai dipendenti pubblici in certi casi addirittura dopo cinque, sei, sette, otto anni dal giorno del pensionamento.
Se, per esempio, un lavoratore fosse andato in pensione con la Quota 100 a 62 anni di età avrebbe dovuto aspettare i 67 anni da cui poi conteggiare i 15 mesi previsti per avere i primi 50.000 euro lordi e aspettare i successivi 12 mesi per percepire il rimanente.
Nella stessa legge che ha istituito Quota 100 era stata poi data la possibilità al dipendente di percepire entro tre mesi dalla cessazione di servizio la somma di 45.000 euro lordi tramite istituti di credito che avrebbero anticipato l’importo con un interesse dell’1% annuo. In pratica il dipendente se avesse aderito, in quanto costretto da impellenti necessità economiche, avrebbe dovuto pagare degli interessi sui soldi propri.
Se poi ancora consideriamo che negli ultimi anni l’inflazione è schizzata verso l’alto e nel solo 2022 è stata quasi del 10% e nel 2023 è attualmente intorno al 7% si può capire come pagare con anni di ritardo danneggi, in maniera consistente, chi deve percepire quanto dovuto.
Per il Governo non sarà facile adesso sbrogliare la matassa, anche perché si parla di circa 14 miliardi di euro che si aggiungono alla giusta perequazione delle pensioni, seppur parziale che ci sarà all’inizio del 2024 e si spera a un riforma strutturale della previdenza che gli italiani aspettano da troppo tempo.
In ogni caso abbiamo assistito a una sentenza sacrosanta e giusta che costringe il Governo, già richiamato dalla Corte a intervenire nel 2019, a modificare una norma iniqua che aveva creato molto malumore e risentimento dei cittadini italiani nei confronti delle istituzioni.
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