Quello che sta accadendo ai danni dei pubblici dipendenti e di cui pochi parlano mette fortemente in dubbio quello che è (o dovrebbe essere) uno dei principi di uno Stato: la certezza del diritto. La questione che sembra far dubitare di ciò riguarda il ritardato pagamento del Tfs nei confronti dei pubblici dipendenti perpetrando una palese ingiustizia che invece di essere sanata e corretta si ingarbuglia sempre di più e che considera tali lavoratori (che pure svolgono un servizio per la collettività) di serie inferiore rispetto ai dipendenti privati.
Molti anni fa ,per le solite e non più giustificabili esigenze di bilancio, si decise di differire il Tfs (che è il Tfr di chi ha cominciato a lavorare nel pubblico impiego prima del 1/1/2001) di 15 mesi nel caso di pensionamento di vecchiaia e 27 mesi nei casi di pensionamento anticipato, nonché di corrispondere quanto dovuto in rate annuali di 50.000 euro lordi. Quando poi furono istituite le famose “Quote” 100, 102, 103 si decise che la decorrenza di quanto dovuto non sarebbe stata dal momento di cessazione del rapporto di lavoro, bensì da quando il lavoratore avrebbe raggiunto i requisiti del pensionamento di vecchiaia o anticipato, cosa che determina che il pagamento viene corrisposto dopo cinque, sei, addirittura sette anni dal giorno del pensionamento.
Se poi ancora consideriamo che, per questa inconcepibile dilatazione dei tempi non è prevista né la corresponsione di interessi, né la rivalutazione monetaria e che nei soli anni 2022 e 2023 l’aumento del costo della vita causato dall’inflazione è stato ufficialmente certificato rispettivamente all’8,1% e al 5,4% si può facilmente intuire come percependo quanto dovuto dopo quattro, cinque o sei anni questo danneggi, in termini di potere d’acquisto, i lavoratori pubblici.
Questa sconcertante decisione dell’Esecutivo ha provocato una serie di ricorsi al Tar che ha poi portato a un intervento della Corte Costituzionale per un giudizio di costituzionalità della legge. Giustamente la sentenza n. 130 del giugno del 2023 ha stabilito che il differimento della corresponsione dei Tfs contrasta con il principio costituzionale della giusta retribuzione e la Corte pertanto ha intimato al legislatore di individuare i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore per sanare tale situazione e dare anche ai pubblici dipendenti il medesimo trattamento che hanno i lavoratori privati.
È passato oltre un anno, ma da parte del Governo nulla è stato fatto, nessun provvedimento è stato approvato, nel Def non vi è alcun accenno alla soluzione di tale problematica e addirittura a seguito di un Ddl a inizio anno del M5S in commissione Lavoro della Camera vi è stato il “parere contrario” da parte della Ragioneria Generale dello Stato sulla riduzione dei tempi di erogazione del Tfs ai pubblici dipendenti perché essa determina effetti peggiorativi sui saldi di finanza pubblica quantificati in 3,8 miliardi di euro per il solo anno corrente.
Si è cercato, poi, di mettere una pezza a questa scandalosa situazione (che si è rivelata poi peggio del buco) proponendo agli aventi diritto di accedere a una somma di 45.000 euro erogata dall’Inps stesso ad un tasso agevolato dell’1,5% annuo che però dopo i primi quattro mesi del 2024 ha già terminato i fondi costringendo coloro che ne avessero necessità ad accedere a dei prestiti bancari con interessi nell’ordine del 3 o 4% annuo.
Su questo delicato tema è intervenuto il Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’Inps che con la delibera n.2/2024 ha affermato che la corresponsione del Tfs subisce attualmente dei significativi ritardi oltre che per la normativa esistente anche dalla carenza di personale che determina un incremento del contenzioso, perché occorre dire che in alcune realtà territoriali i tempi già esageratamente dilatatati di erogazione vengono ulteriormente allungati per la mancanza di personale dedicato a tale scopo e pertanto oltre a sollecitare un intervento normativo il Civ ha chiesto agli organi di gestione dell’istituto di elaborare tempestivamente un progetto specifico per ridurre i tempi di erogazione di tale istituto.
Dallo stesso Civ nel corso del Rendiconto Generale dell’anno 2023 presentato ieri si evince che l’Inps ha chiuso l’anno con un risultato economico di esercizio positivo per oltre due miliardi, registrando un aumento del costo complessivo per pensioni arrivato a oltre 304 miliardi con una crescita del 7,4% quasi interamente legato alla rivalutazione dovuta all’altissima inflazione dell’anno 2022. Il bilancio del 2023 dell’Inps si è chiuso con un saldo della gestione di competenza di oltre dodici miliardi e con un avanzo patrimoniale netto di quasi trenta miliardi che fa dichiarare al suo Presidente Ghiselli che l’importante risultato rappresenta un ulteriore elemento che attesta l’equilibrio del sistema previdenziale pubblico italiano.
In attesa di una auspicabile riforma della previdenza non più rinviabile per superare la rigidità imposta dalla Legge Fornero per salvaguardare le future generazioni mediante l’istituzione di una pensione di garanzia per i giovani e dando una forte implementazione alla previdenza complementare, ben venga l’iniziativa dei sindacati per ripristinare quello stato di diritto che consenta a tutti i cittadini italiani di continuare a credere nelle istituzioni repubblicane anche alla luce dei recentissimi dati sul bilancio dell’Inps che, contrariamente a quanto percepito, evidenziano una situazione previdenziale positiva.
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