“La dama di picche” di Petr I’llic Thcajkovskij ha inaugurato la stagione lirica e di balletto del Teatro di San Carlo di Napoli l’11 dicembre. L’ho vista ed ascoltata alla replica del 15 dicembre. E’ opera poco conosciuta a Napoli dove, in passato, si è vista ed ascoltata solo per due sere nel 1963 nel quadro di una tournée in Italia del Teatro dell’Opera di Zagabria e per cinque repliche nel 2005 quando la produzione venne importata dalla Royal Opera House di Londra. Mi è stato detto che l’11 dicembre il pubblico è stato freddo. La scarsa conoscenza dell’opera e la scelta di un titolo non italiano possono avere influito. Così come – l’allestimento proviene da Amburgo – il fatto che viene rappresentata con un unico intervallo (dopo i primi due atti) e non dà, quindi, l’opportunità alle signore di svolazzare nei loro nuovi abiti da sera nel gran foyer ed ai signori in smoking di intrattenersi in conversazioni. Alla replica del 15 dicembre, invece, un vero trionfo.
Nonostante sia un capolavoro del teatro in musica “La dama di picche” resta opera poco conosciuta in Italia. Nel 2015, è stata vista ed ascoltata, dopo sessanta anni al Teatro dell’Opera di Roma. Precedentemente, nel 2005 era stata messa in scena all’Arcimboldi, quando era sede provvisoria della Scala. Alcuna anni prima, a Ravenna, aveva trionfato un allestimento della Helikon Opera di Mosca e quasi nello stesso periodo girò per l’Emilia-Romagna una produzione stilizzata, in costumi moderni, co-prodotta dall’Opera Nazionale del Galles, dal Teatro Comunale di Bologna e dal Teatro dell’Opera di Oslo. Un vero capolavoro che ha raggiunto anche l’Australia e la Nuova Zelanda, “La dama di picche” poté essere ascoltata a Roma, alla fine degli Anni Ottanta, in versione di concerto (di gran lusso) all’Auditorium di Via della Conciliazione, portata dal Mariinskji di San Pietroburgo che negli anni caotici della caduta del comunismo si finanziava con tournée all’estero.
Dato che una versione scenica manca da tanti anni può essere utile una breve presentazione. L’opera, su un libretto del fratello di Thcajkovskij , Modest, è tratta da un racconto di Puskin a cui peraltro aveva già attinto Jacques Halévy. Ricordiamo brevemente la vicenda: Hermann, ufficiale di bello aspetto ma con le tasche vuote e la passione per il gioco, è più interessato ai soldi che alle donne – condizione che per certi aspetti lo accomuna a Thcajkovskij (essere “gay” nella Russia degli zar comportava la pena di morte) sposatosi per nascondere le proprie tendenze, sempre indebitato e, all’epoca delle composizione de “La dama di picche” probabilmente innamorato perdutamente di un nipote per il quale avrebbe lasciato il proprio valletto-compagno di vita abituale. Il giovanotto utilizza, però, la propria avvenenza per sedurre una fanciulla dell’aristocrazia, Liza, e portarla via al fidanzato all’unico scopo di potere avere le chiavi della casa dove la ragazza vive con le vecchia nonna. Quest’ultima è stata anche essa una grande giocatrice; ha la fama di essere titolare di una combinazione segreta per vincere al tavolo verde. L’anziana Contessa, terrorizzata dal giovane, ha un infarto. Liza comprende di essere stata strumentalizzata e si getta nella Neva. Nella bisca, il fantasma della contessa appare ad Herman per dargli, però, la combinazione errata e portarlo al suicidio. La novella di Puskin – se vogliamo – è ancora più cruda con Hermann – particolare sconvolgente nel 1834, data di pubblicazione – che giunge a prostituirsi per le “tre carte”.
Ultimo lavoro per il teatro in musica del compositore russo più aperto all’Occidente – la partitura de “La dama di picche” venne composta, in gran misura, a Firenze – è una opera che, sotto il profilo tecnico, si situa chiaramente tra due secoli: a musiche ispirate a Bizet e a Massenet se ne alternano altre caratterizzate da una scrittura frammentata che anticipa l’espressionismo. Nella vita artistica di Thcajkovskij, “La dama di picche” giunge a 13 anni da un altro capolavoro del maestro russo tratto da Puskin, Eugenio Oneghin , che, tra breve, sarà in scena al Teatro dell’Opera di Roma.
Mentre Oneghin è la riflessione amara di un 27enne sulle occasioni perdute, sulla felicità non colta anche se a portata di mano, “La dama di picche” è la tragica meditazione sui rapporti tra uomo e destino (qui riassunto nelle “tre carte” che in “tre atti” portano alla dissoluzione spietata dei “tre protagonisti”) in un mondo apparentemente all’apice della potenza politica ed intellettuale (la Russia di Caterina la Grande) ma già in disfacimento. Al languore melanconico, e sensuale, di Oneghin si contrappone il “cupio dissolvi” di un individuo e di un’epoca. Tre anni più tardi, Thcajkovskij sarebbe morto in circostanze misteriose, sempre più avvalorata l’ipotesi secondo cui sarebbe stato costretto al suicidio a ragione delle sue tendenze sessuali. Meno di venti anni dopo crollava la Russia sui fronti militari e per il germe del comunismo.
“La dama di picche” fu composta in soli 44 giorni, nel corso di un soggiorno a Firenze: l’idea suggerita dal sovrintendente dei teatri imperiali Ivan Vsevoložskij di trarre un’opera dal racconto di Puskin aveva suscitato nel musicista un autentico furore creativo. Thcajkovskij intervenne consistentemente anche nella stesura del libretto, opera del fratello Modest, nel quale l’originale di Puskin è profondamente modificato.
L’opera, andata trionfalmente in scena al Mariinskij di San Pietroburgo nel 1890, riflette il mondo espressivo delle ultime sinfonie del maestro, al quale si aggiunge l’influsso del grand-opéra francese, come evidenzia lo spostamento della vicenda del racconto di Puskin all’epoca di Caterina la Grande e il conseguente sviluppo di spunti fastosamente spettacolari.
La produzione, vista ed ascoltata a Napoli, mette bene in luce questi temi. La regia di Willy Decker, le scenografie e i costumi di Wolfgang Gussmann, le luci di Hans Toelsted collocano l’azione in un contesto senza tempo dove il nero e il grigio, anche se con qualche spruzzata di bianco, sono i colori dominanti. Più specificamente, la maggior parte dei personaggi e membri del coro sono in grigio scuro o nero. In un scena unica (essenzialmente il palcoscenico vuoto), dove attrezzeria, muri mobili e proiezioni sono sufficienti per mostrare i vari luoghi in cui l’azione si evolve, e con il coro spesso come un commentatore immobile della trama, questa dama di picche ben riflette lo stato d’animo di Tchaikovsky quando componeva a Firenze e stava iniziando la strada verso il suicidio: l’opera e la sua sesta sinfonia furono il suo requiem e la marcia funebre. Rispetto ad altre recenti produzioni, in questa messa in scena c’è una chiara enfasi sulla distanza di classe sociale tra Hermann e gli altri, nonché sugli aspetti sensuali ed erotici, anche nel ricordo della vecchia contessa dei suoi giovani giorni a Parigi. La recitazione è eccellente.
Il ritmo è teso e intenso. Per dare un impatto più forte, l’edizione musicale non è filologica. Ci sono due tagli significativi: il coro introduttivo nel giardino d’estate di San Pietroburgo nel primo atto e l’intermezzo musicale pastorale durante la scena della festa nel secondo atto. Questi tagli rendono l’azione più rapida e più drammatica e accentuano la tragedia sia dei personaggi principali sia della società che li circonda. L’intermezzo pastorale è stato incluso da Tchaikovsky perché un balletto era un requisito dei teatri imperiali dove l’opera ha avuto il suo debutto. Complessivamente, c’è una forte giustificazione per i due tagli, soprattutto in una produzione in cui la disperazione dei personaggi principali e della società che li circonda è il tema di fondo.
Ho già detto che questa opera è il requiem e la marcia funebre di Tchaikovsky. Ciò è molto evidente in questa produzione. Ho già detto anche della morte tragica dei tre protagonisti. Tutti gli altri sono anche loro sulla strada di un triste destino. La dama di picche è stata composta alla fine del XIX secolo; Tchaikovsky percepì il periodo non solo come la fine della sua vita, ma anche e principalmente come la fine di un mondo. Anche l’imperatrice Caterina la Grande si presenta come un monumento funebre astratto quando appare nella festa del secondo atto. La rivoluzione russa stava già bussando alle porte.
A mio parere, questi aspetti sono utili per comprendere le specifiche caratteristiche musicali della produzione. Il direttore musicale del San Carlo, Juraj Valčuha dirige l’orchestra con le braccia aperte e dà enfasi sugli archi e sui legni: i violoncelli e il fagotto sono determinanti chiave nella marcia funebre degli individui e di una società. L’orchestra sottolinea i momenti sensuali ed erotici come la seduzione di Liza da parte di Hermann e il ricordo della contessa della sua giovinezza a Parigi.
I cantanti sono dei più alti standard. Sono troppo numerosi per essere tutti citati. Hermann è Misha Didyk, il vero successore di Vladimir Galouzin per questo ruolo impervio dove è richiesto un tenore eroico wagneriano con un forte sapore russo. Liza è Anna Nechaeva, una soprano drammatico molto solido e un’ottima attrice. Julia Gersteva, la Contessa, è un mezzo soprano ricco di sfumature. Il baritono Maksim Aniskin è il principe Eleckij; dopo la sua aria principale, ha ricevuto un applauso a scena aperta.