Nell’isola di Sulawesi, in Indonesia, esiste un culto dei morti che per noi occidentali è semplicemente raccapricciante. Sebbene il popolo Toraja sia oggi di fede cristiana, il suo lungo isolamento ha fatto sì che il culto arcaico dei defunti, di stampo animista, fosse mantenuto in modo non solo fortemente sentito, ma assolutamente centrale anche al giorno d’oggi. Per questa popolazione la morte non è la fine della vita, ma solo l’inizio di un viaggio verso il mondo delle anime, e nel momento in cui una persona viene a mancare non viene considerata come trapassata ma solo come addormentata, sospesa tra due mondi. Nella tradizione Toraja possono passare mesi o addirittura anni prima di arrivare al rito funebre. Questo perché il rituale è molto elaborato e comporta dei costi considerevoli, ma anche perché è necessario che tutti i familiari abbiano metabolizzato il trapasso della persona cara e siano pronti a lasciarla andare. Il defunto viene quindi mummificato con formalina e portato nella casa natale. Durante questo periodo la mummia viene tenuta in casa come fosse ancora in vita: ben vestita, le si offrono cibo, sigarette e quando ci si alza da tavola ci si congeda da lei chiedendo “permesso”.
Una volta che tutti i familiari sono d’accordo a separarsi dal defunto, e trovate le risorse necessarie, si può procedere a celebrare il rituale che, a seconda della classe sociale del defunto e dunque della disponibilità economica della sua famiglia, può durare anche oltre una settimana. La bara in cui viene deposta la mummia è lavorata con cura e decorata con stoffe pregiate nonché con beni preziosi appartenuti al defunto e anche oggetti che egli usava quotidianamente, compresi alcolici e sigarette. Una volta chiusa la cassa viene riposta in una grotta scavata nelle pareti rocciose e davanti alla grotta viene posto un manichino di legno intagliato con le fattezze del morto, chiamato Tau Tau, il quale viene rivolto con il volto verso il villaggio come se continuasse a vegliare su di esso e in particolare sui propri cari. Il percorso del defunto però non finisce qui. Egli rimane una costante presenza nella comunità e ogni anno, tra luglio e agosto, si svolge il Ma Nene, una cerimonia in cui le bare vengono riportate nel villaggio e aperte, le mummie vengono cambiate d’abito, pettinate, vengono sistemati gli occhiali a coloro che li portavano quando erano in vita, vengono loro offerti cibo, alcolici e sigarette, e per tutto il giorno le mummie vengono portate in giro per il villaggio a salutare i parenti e gli amici, cogliendo anche l’occasione per scattare qualche, (a dir la verità un po’ macabro) ritratto di famiglia.<
Non è la prima volta che nel mondo dello spettacolo occidentale siano stati pubblicati duetti con “il caro estinto” (lo fecero tra gli altri Lisa Marie con il padre Elvis Presley, Natalie Cole con il padre Nat, Faith Evans con il padre Notorius BIG). Il massimo lo ha raggiunto Barry Manilow incidendo un intero disco di duetti “col morto”: John Denver, Sammy Davis Jr, Louis Armstrong, Whitney Houston e altri ancora.
C’è qualcosa di molto simile, anche se di meno macabro, con quanto fa il popolo dei Toraja: non rassegnarci alla scomparsa di una persona, continuare a considerarla in vita, sia con i poveri mezzi di quel popolo che con le complicate tecnologie moderne. La morte, semplicemente, non deve esistere. E’ inaccettabile.
In un certo senso, Paul McCartney non è mai riuscito a lasciare andare John Lennon e a scadenze continue lo riporta in vita.
Ma questa volta il bassista e Ringo Starr si sono spinti là dove nessuno ancora aveva osato: i morti riportati in vita per il cosiddetto nuovo singolo dei Beatles, sono addirittura due: John Lennon e George Harrison. Non hanno tirato fuori i cadaveri dai sepolcri, anche se il video clip che accompagna la canzone fa quell’effetto: il John Lennon che si muove come un manichino sembra davvero una sorta di zombie mosso con dei fili. E’ decisamente inquietante. Così come il vecchio McCartney che spunta tra i giovani George e John. Un po’ come il popolo indonesiano porta a spasso i suoi cari estinti.
Non ci azzardiamo a valutare la qualità artistica del pezzo, un demo che Lennon incise a casa sua nel 1977 insieme a tanti altri. In quel periodo storico l’ex Beatle si era ritirato completamente dal mondo della musica per dedicarsi completamente al figlio Sean, per non ripetere gli errori fatti con l’altro figlio Julian, completamente ignorato nella sua infanzia, troppo occupato a fare la rock star più famosa del mondo. Però, come ha raccontato lo stesso Sean, il padre sebbene non avrebbe più fatto dischi o concerti per cinque anni, in casa suonava e registrava sempre. La storia della cassettina su cui Lennon aveva inciso diversi brani è arci nota: nel 1994 la vedova Yoko Ono la consegnò a Paul McCartney dicendogli chiaramente che se voleva poteva utilizzare quei brani come preferiva, insieme agli altri Beatle superstiti, George Ringo. Cosa che fecero prontamente sovraincidendo alla voce dell’amico scomparso due brani, Free as a Bird e Real love. Si bloccarono però, come sappiamo ormai benissimo, al terzo inedito, Now and then, perché la qualità tecnica era troppo scarsa. George la definì “una schifezza” e smisero di lavorarci. Fino a oggi quando grazie alle nuove tecnologie è stato possibile ottenere una registrazione di buona qualità. Nel frattempo, nel 2001, era morto anche Harrison.
Già allora, nel 1995, avevamo salutato quelle due pubblicazioni come le ultime dei Beatles, accompagnate da nostalgici e commoventi video di addio. Che bisogno c’era, nel 2023, di ripetere l’operazione (oltretutto con un brano artisticamente nettamente inferiore a quelli di allora) e lanciarlo nuovamente come l’ultima registrazione “dei Beatles” non lo sappiamo. Se non, un po’ come i Toraja, ripetere la riesumazione dei cari estinti per riportarli in vita. Fa specie pensare che è passato più tempo da quando uscì Free as a Bird (nel 1995) a oggi di quanto ne fosse passato dallo scioglimento dei Beatles ala pubblicazione di quell’inedito (nel primo caso 25 anni; nel secondo 28). Di fatto ogni dimensione temporale non ha ormai alcun significato, il tempo si è allungato, ritorto, cancellato, perso di significato. Una sorta di ritorno al futuro senza fine.
Non ci interessa giudicare se Now and then sia valido o meno, per quanto profondamente intinto in mille referenze beatlesiane dalla slide di Harrison, ai cori di McCartney, all’arrangiamento sinfonico così simile a Eleanor Rigby e a Iam the warlus. Doveva essere la nuova canzone dei Beatles e così è stato fatto, a forza e a spintoni. E poco importa che sul quella cassetta data da Yoko a Paul ci fosse stato scritto da Lennon “Per Paul”. Poteva significare di tutto, anche uno scherzo. A meno di non credere a suggestioni paranormali Lennon non poteva prevedere la sua imminente morte, e perché mai doveva lasciargli dei pezzi inediti?
Quello che emerge da questa operazione è piuttosto un legame impossibile a spezzare con la morte, a cui evidentemente McCartney di tanto in tanto sente di dover tornare. E’ quel legame che ha reso i Beatles unici e immensi nella storia della musica popolare del 900.
All’interno della storia da Love Me Do (primo singolo dei Fab4 che appare come lato B di questo nuovo singolo) a Now and Then c’è la storia d’amore di John Lennon e Paul McCartney, che è anche la nostra storia.
A più di mezzo secolo dallo scioglimento dei Beatles, le loro canzoni permeano ancora le nostre vite. Le cantiamo negli asili nido e negli stadi; piangiamo con loro ai matrimoni e ai funerali e nell’intimità delle nostre camere da letto. L’appello è multi generazionale; Taylor Swift e Billie Eilish sono fan dichiarati.
Le canzoni dei Beatles ci parlano ancora in modo così diretto perché sono veicoli per la trasmissione di sentimenti troppo potenti per il linguaggio normale. Lennon e McCartney erano giovani ragazzi cresciuti in un’epoca in cui gli uomini non erano incoraggiati a parlare dei propri sentimenti, sia in terapia che tra loro. Hanno acquisito la loro educazione emotiva dalla musica, in particolare dalla musica di artisti neri come Smokey Robinson, Arthur Alexander, gli Everly Brothers e le Shirelles. Quasi tutto ciò che provavano – e sentivano – veniva riversato nella musica, compresi i sentimenti reciproci. Era qualcosa d’inedito e inaudito che ha cambiato il modo di vivere di più generazioni, lo ha reso più bello, sincero, fragile, commovente. In una parola ha dato il suggello al decennio più meraviglioso, utopico della storia dell’umanità, in cui si pensava davvero di cambiare il mondo solo con l’amore, gli anni 60.
Now and Then non era intesa come una canzone dei Beatles. Ben dopo lo scioglimento della band, Lennon la scrisse al pianoforte durante il suo ritiro dagli occhi del pubblico alla fine degli anni 70. È stata registrata su un registratore e messa via. Nel 1994, sua moglie, Yoko Ono, scoprì un paio di cassette di demo di suo marito e le usò per contribuire al progetto retrospettivo dei Beatles “Anthology”. Sull’etichetta di uno, il signor Lennon aveva scarabocchiato “Now + Then”, come per prendere nota di quella canzone in particolare, per capire cosa avesse registrato e quando. Ma poiché la qualità del suono era pessima (George Harrison la definì “spazzatura”), Now and Then non andò lontano.
Ma McCartney non se ne è mai dimenticato. Inviò la demo a Peter Jackson, il regista del documentario sui Beatles “Get Back”, che utilizzò una tecnologia audio all’avanguardia per pulire il nastro così a fondo da far sembrare che il signor Lennon fosse tornato nella stanza.
Giles Martin, produttore di questo nuovo brano e figlio del leggendario produttore dei Beatles George Martin, ha una teoria: “Sento che Now and Then sia una lettera d’amore a Paul scritta da John”, ha detto “ecco perché Paul era così determinato a finirla”.
Sebbene sia stata variamente inquadrata come un’amicizia, una rivalità o una partnership di convenienza, il modo migliore per pensare alla relazione tra questi due geni è proprio quella di una storia d’amore. Non si trattò di un rapporto sessuale, ma di un rapporto passionale: intenso, tenero e tempestoso.
Lennon e McCartney si incontrarono da adolescenti nel 1957. Erano dotati, carismatici e impetuosi. McCartney aveva recentemente perso la sua amata madre a causa del cancro; Lennon era passato di madre in padre e poi in zia senza mai sentirsi desiderato. Sua madre, Julia, che lui adorava, fu uccisa da un guidatore imprudente.
Il lutto legava insieme questi ragazzi senza madre, anche le risate. Ma la musica era la forza legante più forte di tutte. Decisero di scrivere canzoni insieme, una promessa che mantennero per lo più fino allo scioglimento dei Beatles, e sognarono che nascesse un intero mondo tutto loro.
Nel giro di pochi anni, il mondo divenne il loro sogno. La micro cultura che germogliò tra loro divenne l’etica dei Beatles, che lasciò un’impronta duratura in tutti noi. Potremmo non essere così ottimisti come lo eravamo allora, ma siamo intrisi della loro incessante curiosità, della loro immaginazione selvaggia e della fede nelle possibilità dell’amore.
Nel corso della loro relazione, Lennon e McCartney usavano le canzoni per raccontarsi cose che probabilmente non si sentivano in grado di dirsi faccia a faccia. Dopo lo scioglimento della band, hanno mantenuto un dialogo a distanza, in canzoni piene di recriminazioni, rimpianti e affetto. Colpito dalle frecciate che McCartney aveva incorporato nel suo album “Ram” (“Hai prerso la tua fortunata occasione e l’hai spezzata in due”), Lennon registrò How Do You Sleep?, un attacco dispettoso e furioso al suo ex compagno di scrittura (“l’unica cosa che hai fatto è stata Yesterday”). McCartney ha risposto con Dear friend, un malinconico appello alla fine delle ostilità (“È davvero questo il confine?”).
Per il resto del decennio, fino alla morte di Lennon, nel 1980, fecero sforzi incessanti per ristabilire la loro amicizia da diverse sponde dell’Atlantico. McCartney e sua moglie Linda andarono a trovare Lennon in America, una sera i due avevano quasi deciso di presentarsi insieme di sorpresa a un noto programma televisivo americano, ma se ne restarono a casa di Lennon a bere birra. Peccato, ma va bene lo stesso. In Let Me Roll It McCartney esegue un’imitazione virtuale di Lennon. In I Know (I Know), Lennon canta: “Oggi ti amo più di ieri”, su un riff basato sulla loro ultima collaborazione diretta come compositore, I’ve Got a Feeling. “Parlare è la forma più lenta di comunicazione”, disse John Lennon nel 1968. “La musica è molto meglio”.
Possiamo capire perché una canzone intitolata Now and Then potrebbe essere così importante per McCartney, e possiamo indovinare cosa sente nei testi di Lennon: “Se dobbiamo ricominciare / Beh lo sapremo per certo / Che ti amerò… / Ogni tanto mi manchi / Ogni tanto / Voglio che tu sia lì per me”.
L’anno scorso durante i suoi concerti Macca era solito presentare un duetto virtuale con Lennon su I’ve Got a Feeling, utilizzando le riprese del concerto sul tetto del 1969. Poteva sembrare una cialtronata, ma quando Paul si rivolgeva al viso del suo amico John, era impossibile trattenere le lacrime.
Non solo McCartney e Lennon ci hanno dato le canzoni più belle dell’ultimo secolo, ma ci hanno dato prova tangente che l’amore non è un sentimento passeggero, ma può essere la base solida su cui basare le nostre esistenze. Tanta attenzione per l’uscita di un brano musicalmente appena accettabile, è la testimonianza di come i Beatles, più di qualunque personalità del Ventesimo secolo (attenzione: non solo nel campo della musica) abbiano inciso e cambiato la storia dell’umanità in meglio. Niente e nessuno come loro, dopo di loro. E che siano stati ineguagliabile, immensi, e soprattutto, a differenza di tanti loro colleghi, essenzialmente un gruppo di amici che neanche la morte ha separato. E anche se il sogno è finito, quello che resta è talmente enorme che no, non vogliamo dimenticarcene. Non possiamo. In fondo, siamo un po’ tutti come i Toraja. All you need is love…
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