Mi piace l’idea di fare il punto su quella che è una delle serie più discusse dell’universo Star Wars: The Book of Boba Fett, spin-off della fortunatissima serie “il Mandaloriano” uscita da poco più di un mese in streaming sul canale Disney+. Da questo momento ci saranno spoiler per cui invito chi non ha visto la serie e avesse intenzione di farlo a fermarsi qua.



La serie narra le vicende di un noto (almeno per gli appassionati del genere) criminale cacciatore di taglie, Boba the Fett, che riesce a sostituirsi al daimyo (il capo dei gangster) di Tatooine: Jabba the Hutt (quell’enorme lumacone dalla voce cavernosa che ne “Il ritorno dello Jedi” del 1983 faceva precipitare Luke nella buca a combattere con un mostro…).



La serie inizia con il nostro Boba intento a prendere le redini dell’impero criminale così conquistato non però con l’obiettivo di governarlo con il terrore e il ricatto, ma piuttosto con il rispetto. Da qui una serie di flashback per spiegare come possa uno spietato cacciatore di taglie asservito all’impero (ricordo che nel “Il ritorno dello Jedi” consegna un giovanissimo Harrison Ford nei panni di Ian Solo, su autorizzazione niente meno che di Dart Fener, proprio a Jaba) cambiare improvvisamente e diventare “buono”.

Il cambiamento di Boba non avviene per bontà d’animo o per un cambio di opinione, ma per l’incontro con uno strano popolo del deserto: i Tusken, dall’aspetto inquietante in quanto i suoi rappresentanti sono completamente fasciati, indossano permanentemente una specie di maschera a gas e parlano un incomprensibile quanto fastidioso idioma gutturale. Questi predoni del deserto prima lo catturano e lo legano a un palo, ma poi, dopo che ha compiuto l’impresa di uccidere un drago Krayt (loro acerrimo nemico), lo accolgono tanto da farlo diventare parte integrante del proprio popolo. Il buon Boba prende, così, parte alla loro vita, impara le loro tradizioni, apprende l’arte di recuperare l’acqua, mangiare il loro cibo e viene inoltre allenato al combattimento.



Dopo il triste epilogo della tribù, sterminata per lo spietato gioco di potere su Tatooine, diviene per Boba naturale ricorrere a un suo precedente alleato, il Mandaloriano (protagonista della serie principale). Anche lui ha alle spalle una storia simile: decide di abbandonare la vita da cacciatore di taglie (sebbene decisamente meno crudele di Boba) dopo aver incontrato il piccolo Grocu (un minuscolo e simpaticissimo baby Joda) per (citando le sue stesse parole) riportarlo tra la sua gente.

L’idea di fondo che “passa” in questa serie è che un cambiamento così radicale della propria vita, in particolare quella di questi due personaggi che ne hanno combinate di cotte e di crude, non possa avvenire che per uno sguardo diverso da parte di qualcuno a cui non interessano le colpe passate ma li accoglie così come sono.

Sia il bambino Grocu che lo strano popolo Tusken costituiscono per i due protagonisti quello che si può definire “casa” e nell’appartenenza a questo luogo la coscienza che loro hanno di se stessi viene ridefinita e svelata portandoli ad abbandonare la vita che facevano prima fino a diventare capaci di rinunciare a un proprio progetto o a una propria idea.

In questo senso è significativo l’episodio in cui il Mandaloriano, dopo un lungo viaggio intrapreso allo scopo di raggiungere il bambino per portargli un regalo, momento che l’avrebbe legato nuovamente a sé, a un passo da lui, rinuncia a salutarlo per evitare di “distrarlo” da quello che considerava il compimento del suo destino: l’ingresso nei Jedi grazie all’allenamento con un giovanissimo e perfettamente ricostruito (incredibile!) Luke Skywalker.

Una delle principali critiche mosse alla serie è la mancanza di fluidità nella narrazione. Troppi appaiono i piani narrativi presenti: i flashback di Boba, le vicende di Boba come daymo per non parlare dell’interrupt per seguire per ben due puntate di fila le vicende del Mandaloriano. Queste linee narrative, per molti detrattori, sono apparse come slegate tra loro e ben poco correlate l’una con l’altra tanto, alla fine, da rischiare di annoiare lo spettatore.

Dal mio punto di vista, invece, l’intento degli autori era di avere come “trait d’union” il cambiamento di vita di entrambi i personaggi per spiegare il feeling che nasce tra i due che culmina nella battaglia finale.

Tutto ormai sembra perduto e il Mandaloriano avrebbe la possibilità di fuggire e di lasciare da solo Boba (con il quale peraltro fino a quel momento non ha avuto alcun tipo di rapporto se non per interessi “professionali”) ad affrontare l’intero esercito nemico. “Immagino che te ne andrai”, gli dice Boba. “No”, è la secca risposta da parte del Mandaloriano. “Dovresti”, insiste Boba. “È contro il credo, rimarrò con te fino alla fine”, chiude la conversazione l’altro.

Nel finale la narrazione riprende fluida e spettacolare, gli effetti speciali sono assolutamente all’altezza delle attese così come le sequenze di combattimento.

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