The Chieftains sono la più illustre band folk irlandese degli ultimi cinquant’anni. A me è capitato l’onore di intervistare Paddy Moloney il 12 aprile del 2010, realizzata insieme a Samuele Tombacco per il programma radiofonico “La Quaglia Amplificata” (Radio Missione Francescana), in occasione della data varesina del tour di “San Patricio”, album premiato ai Grammy Awards, che fonde musica irlandese e sonorità messicane grazie allo zampino di Ry Cooder. Abbiamo voluto riproporla per celebrare un disco straordinario, l’incontro di due mondi e due culture unite dalla fede cattolica per la libertà.



Lavorare con Ry Cooder per la registrazione di “San Patricio” è stata una bella esperienza?

Sì, quella narrata è una storia in cui mi sono imbattuto trent’anni fa, stavo realizzando della musica sulla Guerra Civile americana e ho trovato questa vicenda. E’ molto interessante, perché parla di un irlandese, John Raelly, che era il comandante dei britannici che hanno combattuto con i messicani. Era un personaggio molto speciale, perché – come molti irlandesi – andò in America al tempo della carestia, nel 1845 e ha dovuto unirsi all’esercito americano per sparare ai cattolici messicani. Ma Railly non poteva accettare l’ingiustizia del fatto che la terra venisse loro tolta. Aveva fatto la stessa esperienza in Irlanda con i vicini inglesi che erano venuti a “far visita” e si sono dimenticati di andarsene. E’ una situazione molto simile. E anche molti comandanti americani non erano d’accordo, come il comandante Grant, che divenne presidente degli Stati Uniti. Lui era completamente contrario alla guerra, riteneva fosse una terribile ingiustizia. E’ una storia che non è mai stata raccontata, questa azione di quaranta uomini irlandesi…  Se si va nel museo a Città del Messico, dove noi abbiamo trascorso settimane registrando e facendo ricerche viene narrata tutta la storia, si vedono i nomi degli Irlandesi, le armi, i cannoni, le bandiere… Anche sulla copertina dell’album si vede l’immagine della Vergine di Guadalupe. E’ un’icona che viene dalla Galizia, nel nord ovest della Spagna, culturalmente collegata a Cuba e al Messico. Da qui  la scelta dell’immagine della Madonna sulla copertina.



Che senso ha suonare la musica folk oggi, in un mondo nel quale i legami con le tradizioni si fanno sempre più deboli?

E’ una grande arte popolare ed è stata riconosciuta come una delle più significative di sempre. E’ bello che ci siano tanti giovani che ripropongono questo sound. Suonano tutti bene e c’è grande competizione. E’ fantastico, da brivido, sentire certi assolo di flauto  e cornamusa. Io non credo che potrei a lungo sostenere questa competizione!

Oggi ci sono ancora tanti giovani che ascoltano e suonano musica irlandese. Per esempio a Boston c’è un gruppo che si chiama Dropkik Murphys. Cosa ne pensi di questo modo diverso di suonare musica irlandese.



Sì, conosco i Dropkik! Tutti fanno esperimenti. I Chieftains hanno iniziato a suonare 48 anni fa eppure continuiamo ad andare alla grande, anzi, vorrei rallentare un po’. C’è tantissimo spazio per altri ottimi gruppi, come le Cherish e Johnny Madden. I Cherish hanno dato vita al loro gruppo tanti anni fa e, a un certo punto si sono chiesti: cosa facciamo di sbagliato? Chiediamo a Puddy Moloney cosa farebbe lui e copiamolo. Quando hanno inciso l’ultimo album hanno lasciato un messaggio sulla mia segreteria dicendo: “Come diavolo hai fatto, Moloney? E’ fantastico! Quand’è che ti tirerai fuori dal gioco, per dare un po’ di spazio a qualcun altro?”.

Sai che prima del loro concerti i Dopkik Murphys hanno fatto sentire la vostra “The Foggy Dew” con Sinéad O’Connor?

Oh davvero? Incredibile! E’ stato bello lavorare con Sinéad, abbiamo fatto almeno tre cose insieme, “The foggy dew”, “As the women are”, “The long journey home”. Ultimamente non sono stato in contatto con lei perché è stata in tour in Europa, ma Sinèad canta benissimo, meglio di ogni altra.

Avete collaborato con moltissimi artisti illustri come Sting, Mark Knopfler, Van Morrison, gli Stones… penso all’album “Long black veil” in particolare. Da cosa nasce l’esigenza di affidare a delle voci così riconoscibili e che la gente associa ad un universo musicale così distante dal vostro, il compito di interpretare canzoni folk irlandesi?

Nel corso della nostra carriera, nel ’72, Paul McCartney mi ha chiesto di fare due pezzi in un album con il suo caro amico Mike McGuire. Da allora molti artisti come Mike Oldfield – con il quale ho fatto due album – mi hanno chiesto dei contributi musicali. Da allora sono degli amici: “Ciao Mik, ciao Sting, Marianne, Mark Knopfler”… Ho prodotto queste canzoni per loro. Pensa a “The Long Black Vail”: tutti i pezzi hanno dei collegamenti con la musica irlandese. Ho incontrato i compositori della title-track che mi hanno detto, per esempio, che amano la versione di Mick Jagger. Abbiamo fatto venticinque o ventisette album di musica tradizionale irlandese, quindi ho deciso: esploriamo un pò, come abbiamo fatto cose per altri musicisti, loro possono venire a fare le nostre. Credo che questi lavori abbiano ulteriormente allargato i confini – più di quanto mi aspettassi – perché, per esempio, ho scoperto che nella musica messicana ci sono influenze europee ed anche italiane e tedesche, oltre che irlandesi e scozzesi. Si possono trovare nella musica messicana polke, mazurke e gighe. E’ eccitante! E con un diverso approccio si potrebbero scrivere sinfonie per orchestra per san Patrizio. Ho trovato delle bande di cornamuse a Città del Messico  che, tutte le domeniche, marciano suonando per i turisti intorno al museo. Ho sentito altre musiche e altri suoni di altre zone del Messico e sono davvero intense e fantastiche: potrei fare cinque o sei cd con tutto questo materiale! Dopo aver inciso l’album abbiamo fatto una jam-session con Ry Cooder, io suonavo il thin wistle: abbiamo fatto altre 10 canzoni. Abbastanza per fare un altro cd! E’ così eccitante essere riusciti a includere nell’album il sound tipico di nove diverse regioni del Messico. Ci sono le marce, le ninnenanne per i morti, l’immagine della nave che lascia l’Irlanda per andare a combattere per i messicani… c’è un’idea romantica. Bisogna mettere sempre la storia al centro.

Ricordi qualcosa di particolare che è accaduto durante le registrazioni?

Oltre allo stare seduti a tavola bevendo tequila e vino rosso dopo le session… sembrava di essere a un party irlandese! Ho incontrato alcuni di questi gruppi che mi hanno raccontato com’è stato difficile iniziare e delle difficoltà che continuano ad avere. Si chiedono come abbiamo fatto noi per quasi 50 anni! Mi sono seduto e gli ho parlato della mia esperienza, dei miei nonni, dei momenti di gioia, danza e musica a fine giornata. Anche loro hanno le stesse esperienze di vita.

Una curiosità: nel 1976 avete vinto il Premio Oscar per la colonna sonora di “Barry Lyndon” di Stanley Kubrik, un regista che nella scelta delle musiche e del modo di accostarle alle immagini si è sempre rivelato geniale e imprevedibile. Come ricordi oggi quell’esperienza, come è avvenuta la realizzazione dei brani?

E’ stato incredibile come siamo riusciti ad amalgamare musica e immagini. In fondo nel film ci sono solo venticinque minuti di narrazione, il resto sono immagini e musica. La musica è molto importante. Secondo Kubrik “The women of Ireland” era un pezzo perfetto e mi ha chiesto di suonarlo per lui. Abbiamo iniziato a parlare e ci siamo trovati molto bene. Mi sono reso conto che mi piaceva moltissimo. Alla fine gli ho venduto venticinque minuti di musica. Anche un pezzo che non è stato utilizzato, perché sembrava che suonassi su una collina, lontano, e questo non succedeva mai nel film. Era veramente un genio e una persona adorabile. Abbiamo dovuto registrare tra le pause di un tour, perché noi volevamo tornare a casa con le nostre famiglie. Ma lui ha detto: portate tutti qui! Era il 1976 e lui era veramente avanti! Quando abbiamo finito di registrare, Kubrik ha organizzato un grande party per tutte le famiglie. Era un uomo di questo tipo.

La musica è nata dalle immagini o le immagini dalla vostra musica?

Sicuramente è iniziato tutto dalle immagini. E’ divertente ricordare come è iniziato tutto. Mi ha telefonato e io ero con un giornalista, nel corso di una conferenza stampa. Mi hanno detto: “C’è mister Kubrik al telefono” e io gli ho risposto: “Gli dica di chiamarmi lunedì, perché adesso sono impegnato”. “D’accordo”, mi hanno detto e il giornalista: “Ma era Kubrik, un genio!”. E’ stato divertente. Poi mi ha detto che intendeva usare un nostro pezzo per un film o per la televisione: voleva avere la nostra autorizzazione. A proposito di geni, la canzone “Green fields of America” fu composta nello studio di Frank Zappa e fu uno dei pochissimi brani capaci di commuoverlo.

Cosa c’è nel cuore della musica irlandese “in the middle of the irish music heartbeat”, che riesce immediatamente a conquistare chiunque ascolti?

Tocca il cuore.  L’ho trovato anche nella gente italiana la prima volta che ho suonato qui, nel 1976. Abbiamo fatto due concerti a Milano. C’ero io con la mia musica, ad esempio la già citata “Women of Ireland”. La gente rispondeva con tale entusiasmo! Conoscevano tutti i pezzi e c’era grande feeling. Riuscivano a legare i pezzi ai giusti sentimenti, alla passione della musica irlandese. Frank Zappa era molto colpito da questa passione, si sedeva con la sua bella moglie Gael e ci ascoltava. Siamo stati molte volte da lui a registrare: ci dava tutto quello che ci serviva, l’uso della casa e dello studio. E anche dopo la sua morte… il giorno della sua morte noi eravamo lì. Quel giorno c’era il funerale. Io non lo sapevo ma Gael ci ha chiesto di prendervi parte: “Dovete esserci”, diceva. Così siamo andati anche noi ed è stato molto triste. Subito dopo, a casa, c’è stato un party, quasi una celebrazione, con una cena e tutto il resto. Dopo sono andato a casa e ho scritto un pezzo per Frank.

G. K. Chesterton ha detto: “Strano popolo i Gaeli d’Irlanda, perché tutte le loro guerre sono allegre e tutte le loro canzoni tristi”. Cosa pensate a proposito?

Penso che le marce, durante la battaglie, soprattutto quelle che io ho suonato con i Chieftains nel nostro ultimo album, debbano portare entusiasmo. Ci vuole molta allegria, anche se alla fine ci può essere molta tristezza. L’atmosfera dev’essere resa più allegra con strumenti rumorosi e sonori, percussioni, rattle, maracas fatte con vere ossa. Sono strumenti che io stesso ho scoperto! Li ho usati per l’album “San Patricio”, ma li avevo già usati per il disco “The battle of Aughrim”, nel ’74. Nel backsound usammo le ossa di bue, quasi delle maracas, che ci aiutarono a ricreare il clima della battaglia. Il rumore di una battaglia è fatto di tutti questi suoni. L’effetto è eccezionale. Vorrei poter essere un compositore così abile come quelli che hanno realizzato queste muische tanti anni fa!

Nel ’79 avete suonato davanti a papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita in Irlanda. Che ricordo avete di quella giornata?

E’ stato incredibile: tutti erano felici e molti venivano da lontano. Più del 90% degli irlandesi ha visto il papa. Erano felicissimi che fosse venuto in Irlanda. Noi abbiamo cercato di scaldare l’atmosfera prima che atterrasse. Abbiamo suonato per una ventina di minuti, quindi per altri dieci durante la Messa. E’ stato un grande onore. Nel gennaio successivo abbiamo suonato nel Nord dell’Irlanda, c’era la neve e era molto diverso. Poi siamo andati a Milano e da lì abbiamo deciso di andare proprio a Roma in treno con tutta la band e i nostri stumenti!

I Chieftains hanno ancora un sogno nel cassetto?

Certo! Vorrei vincere un altro Grammy! Sulla mia libreria a casa, vicino a tutti gli altri c’è ancora uno spazio vuoto! Il nuovo album che abbiamo fatto, “San Patricio” è arrivato al primo posto delle classifiche per molte settimane ed è ancora in classifica. E’ stato nominato in 20 diverse categorie, magari riusciremo a vincere qualcosa!