“Phony Beatlemania has bitten the dust”, la falsa mania dei Beatles sta mordendo la povere. E’ l’estate del 2001, siamo in una squallida saletta per ricevimenti al piano sotto terra di un albergo nel centro di Milano. Seduto accanto a me c’è Joe Strummer, il figo dei fighi, l’icona delle icone, quello che era il leader dell’unica band che conta, “the only band that matters”. Gli cito quella frase tratta da London Calling e si mette le mani tra i capelli: “Oh no! I Beatles per me sono come il papa per i cattolici! Li adoro, sono il più grande gruppo di tutti i tempi”. Ridacchio.
Sono passati 32 anni da quando quella canzone incendiaria chiamava a raccolta i ribelli di tutto il mondo: Londra stava chiamando. Poco sapevo che quella mattina sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto vivo Joe Strummer. Sarebbe morto poco più di un anno dopo. Pochi giorni prima del Natale del 2002 il suo grande cuore avrebbe smesso di battere.
Una frase, quella, che si capiva nel contesto del periodo storico che si viveva. I punk infatti non erano solo contro l’establishment, contro la Regina, contro Margaret Thatcher. Volevano anche distruggere i miti del rock, i Beatles, gli Stones, tutto quello che rappresentava un passato glorioso che poi era decimato nella droga, nei miliardi, nel distacco dal loro pubblico stesso. Lo stardom, i dinosauri del rock. Adesso era il momento di liberare energie nuove, giovani, antagoniste. Eppure, per i puristi del punk, anche i Clash con quel doppio album, uscito in Europa nel dicembre 1979 (una data significativa, che rappresentava la fine del decennio più stimolante, ricco ed esaltante della storia del rock, ma allora non lo sapevamo) e in America a inizio 1980, stavano tradendo la loro origine proletaria. Era vero, London Calling non era più un disco punk, ma i Clash rimanevano il gruppo più rivoluzionario e a sinistra che ci fosse al mondo. Semplicemente stavano compiendo un passo di maturità musicale che, in quel periodo, non aveva precedenti.
Come disse una volta lo scrittore americano Greil Marcus, i migliori dischi di rock’n’roll sono stati fatti da inglesi che erano degli americani “immaginari”: Beatles, Stones, Who e Clash. Sognando, da lontano, un’America tramandata ma non vissuta, ne avevano colto i miti, le leggende, i tradimenti, l’oppressione, ma soprattutto l’anima musicale come nessun americano aveva davvero saputo fare. L’avevano estrapolata, mixata con la loro cultura e ne avevano fatto qualcosa di vivo e pulsante, non un museo.
In questo senso, London Calling, già con quella copertina che riprendeva la grafica e i colori del primo album di Elvis Presley, era un manifesto epico del rock’n’roll. La foto di Paul Simonon che spacca il suo basso durante un concerto era l’immagine della rivolta, della rabbia, della furia iconoclasta. Un disco che oggi, 40 anni dopo, suona ancora fresco e eccitante come i grandi capolavori di questa musica, dischi come Sgt Pepper e Abbey Road, Exile On Main Street, Bonde on Blonde, Pet Sounds, Who’s Next, il primo dei Led Zeppelin.
Sfuggendo alle regole manichee e ideologiche di una rivoluzione che come tutte le rivoluzioni era affossata ben presto nel manierismo e nell’ideologia, non solo avevano conservato la loro anima ribelle e sfrontata, ma erano stati dichiarati i più grandi sulla scena: the only band that matters.
In London Calling i Clash passano in rassegna i miti che costituiscono l’essenza del rock’n’roll, svelandoli ai più, fantasmi che costituiscono e svelano lo spirito di questa musica, che nasce fuorilegge e nella concezione del gruppo inglese tale deve restare, unendoli alle radici dell’Inghilterra di quel periodo, allo ska e al reggae della comunità giamaicana che a Londra ha installato un presidio culturale fondamentale per la musica stessa. E che a Brixton, il quartiere giamaicano della capitale inglese, ha visto esplodere una rivolta che per giovani ragazzi della classe medio borghese come Strummer, rappresenta l’esempio da seguire, invocando anche per loro una “white riot”. Nel giro di due anni, tra il 77 e il 79, Londra torna a essere al centro del mondo come dieci anni prima, ai tempi della Swinging London.
Incorporando l’estetica punk nella mitologia del rock & roll e nella musica delle radici, i Clash si gettano a capofitto in un viaggio eccitante e furibondo. In precedenza, avevano sperimentato con il reggae, ma nessuno si aspettava la serie vertiginosa di stili che appare su London Calling. C’è punk e reggae, ma c’è anche rockabilly, ska, R&B di New Orleans, pop, lounge jazz e hard rock; e mentre il disco non è legato da un tema specifico, il suo eclettismo e il suo punk immanente funzionano come un richiamo. Mentre molte delle canzoni – in particolare London Calling, Spanish Bombs e The Guns of Brixton sono esplicitamente politiche (anche se quest’ultima in realtà nasce da uno stupidissimo episodio che vede Paul Simonon sparare ai piccioni su un tetto), non riconoscendo confini, la musica stessa è politica e rivoluzionaria. Ma è anche corroborante, più forte e con più scopo della maggior parte dei loro album. Nel corso del disco, Joe Strummer e Mick Jones (e Paul Simonon, che scrisse appunto The Guns of Brixton) esplorano i temi familiari di ribellione della classe operaia e contro l’istituzione, ma li legano anche al vecchio rock & roll fatto di tradizioni e miti, che si tratti di rockabilly o “Stagger Lee” che appare quasi ovunque nelle canzoni. Stagger Lee, il mito del nero fuori legge, magnaccia, spacciatore di droga, il nero che osa imporsi come fosse un gangster bianco sfidando la supremazia bianca. Eccolo alzarsi in piedi in Wrong ‘em Boyo, un pezzo ska, così come nella successiva Death or Glory: “Ogni pezzente raggiunge un accordo con il mondo e finisce con debiti da saldare per il divano o la ragazza, amore e odio tatuati sulle mani, le stesse che schiaffeggiano i figli”. Stagolee è il male, il diavolo che si nasconde nelle canzoni rock reclamando il suo potere. E i Clash lo invocano ovunque, attraverso una galleria di personaggi inquietanti.
Montgomery Cliff ad esempio, in Right or Wrong, l’attore esiliato da Hollywood: omosessuale, depresso e drogato, morto a 45 anni. C’è Gene Vincent, uno dei primi grandi rocker inglesi, colui che guidava la macchina quando in un pauroso incidente perse la vita la star Eddie Cochran, autore del classico Be Bob a Lula, qui con la strepitosa Brand New Cadillac che i Clash fanno loro dimostrando di essere la rock band più eccitante del pianeta. C’è Jimmy Jazz, un balordo dei bassifondi di NYC a caccia di soldi facili che finisce con la testa mozzata.
E c’è l’adrenalina di Clampdown, manifesto dell’etica punk: “E’ il momento di incazzarsi può anche essere forza sai che puoi usarla?” come c’è l’esaltazione dei “rude boys” di Brixton, in Rudie Can’t Fail. Finendo con un brano che non appare neppure nella copertina del disco, incluso all’ultimo momento, firmato da Mick Jones, Train in Vain con ovvio riferimento a Love in Cain del bluesman che vendette l’anima al diavolo, Robert Johnson. Un brano perfettamente pop, perché questi ragazzi avevano un cuore grande.
Il risultato alla fine è una straordinaria dichiarazione di intenti e uno dei più grandi album rock & roll mai registrati.
Quella mattina a Milano a un certo punto chiesi a Joe Strummer che cosa ne pensava di un doppio disco dal vivo che conteneva il meglio dei Clash in concerto, da poco uscito. Mi rispose mettendosi le mani sul viso: “Non l’ho ascoltato, non posso ascoltarlo. Quando penso ai Clash mi sento come un soldato tornato dal Vietnam, un reduce. Continuano a venirmi dei flashback. No, non voglio pensarci”. Tanto era il segno, le ferite, la passione mai morta che quella storia aveva lasciato in lui. I Clash, nonostante le proposte milionarie, non si sarebbero mai riuniti, come fanno normalmente tutti i gruppi rock, producendo esibizioni imbarazzanti più che altro. Anche i gruppi punk hanno ceduto alle lusinghe del denaro con reunion patetiche, vedi i Sex Pistols e tanti altri. I Clash avrebbero sempre conservato l’integrità, l’onestà e l’epica che li aveva resi “the only band that matters”. Pensandoci bene, neanche i Beatles si sono mai riuniti…