Merita di certo più la visione che il dibattito la quarta stagione di The Crown. I dieci episodi sono infatti la sintesi perfetta di un decennio – gli anni ’80 – di cui in qualche modo abbiamo smarrito il ricordo. Non è la stagione di Diana. O meglio non è solo la stagione della giovane principessa. Sono gli anni in cui riesplode la questione irlandese, della vittoria di Margaret Thatcher (Premier dal 1979 al 1990) e della sua rigida dottrina liberista, delle privatizzazioni e dei minatori in sciopero, della guerra nelle Falkland.



La monarchia entra nel decennio con la solita spensierata inconsapevolezza. I ritmi della famiglia Windsor sembrano volutamente non tenere conto di quello che accade fuori dalle loro antiche residenze. Essi si ritraggono dall’esprimere pubblicamente la propria opinione praticamente su tutto. E se lo fanno – come quando la regina si impegna a far sottoscrivere alla Thatcher la dichiarazione dei Paesi del Commonwealth a favore dell’embargo contro il Sudafrica segregazionista – se ne pentono immediatamente. Anche i rapporti con i media devono inevitabilmente subire una trasformazione, ma la resistenza a ogni cambiamento espone gli inquilini di Buckingham Palace a ricorrenti fughe di notizie, pubblicità indesiderata, gossip e violazioni della privacy.



La distanza da quello che succede nel mondo esterno è ben rappresentata da tre episodi dedicati a fatti realmente accaduti e che nessuno ha potuto smentire. Il primo riguarda il licenziamento del capo dell’ufficio stampa, depositario di tanti segreti della casa reale, per aver fatto trapelare i dissapori con la Lady di ferro sul ruolo del Commonwealth, per quanto richiesto dalla stessa regina; il secondo (forse l’episodio più bello dell’intera stagione) riguarda la scoperta da parte della principessa Margaret di un intero ramo della famiglia affetto da demenza, rinchiuso e abbandonato in un manicomio per non danneggiare l’immagine dell’integrità della discendenza; il terzo episodio riguarda l’incredibile vicenda di un disoccupato, disperato perché vittima delle politiche sociali draconiane della signora Thatcher, che entra per per protesta due volte nella camera da letto della regina solo per parlarle, ridicolizzando i servizi di sicurezza inglesi. 



Insomma, in The Crown appare una monarchia incapace di cogliere quello che le accade intorno, infastidita per quello che sembra mettere in discussione antiche certezze e in ritardo su tutto, e che si rilassa solo quando si rinchiude in lunghe ed estenuanti vacanze in Scozia, nel castello di Balmoral, l’unico posto del vasto regno dove sembra che il tempo si sia fermato. 

È in questo clima di difficoltà per la famiglia reale che compare a un certo punto Diana. Spinto dal padre Filippo, ma soprattutto dal prozio Lord Mountbatten (l’ultimo viceré delle Indie, fatto saltare in aria dall’Ira) a trovare rapidamente una moglie, Carlo si incuriosisce di questa giovane e graziosa rampolla di una delle più note e autorevoli famiglie della nobiltà. Sottopone la scelta alla famiglia, che approva senza sollevare questioni. Sembra a tutti la scelta giusta. Chiedono al principe di Galles di interrompere la relazione con Camilla, che va avanti da tempo. Anche Diana sembra determinata a conquistare quel posto, anche se molto giovane sa che ha a portata di mano l’occasione per trasformare la sua vita in una favola. 

Quasi subito però Diana scopre che quel ruolo comporta – come un qualsiasi normale lavoro – molti sacrifici, obblighi e funzioni noiose, il rispetto di comportamenti e di una prassi votati alla finzione e all’ipocrisia. E che il suo matrimonio non è fondato certo sull’amore di Carlo. Gli altri membri della famiglia, tutti altrettanto infelici ma devoti alla regina, eseguono i compiti a loro assegnati senza grandi discussioni. Lei non riesce ad accettarlo. Forse perché culturalmente e psicologicamente non è del tutto pronta. 

Gli anni Ottanta sono l’ultimo decennio senza telefonini e mail, senza internet e i social, rappresentano – tecnologicamente parlando – la parte conclusiva del secolo scorso. Eppure parlarne oggi significa riaprire ferite ancora non rimarginate e colpire persone che sono ancora tra noi.

Per questo motivo nel momento in cui irrompe nella vita del principe di Galles la giovanissima Diana Spencer, The Crown cambia registro e appare improvvisamente “cattiva” verso la famiglia reale. Fino a suscitare una reazione molto critica,  sia di ambienti di destra (in difesa della famiglia) che di sinistra (devoti al mito della principessa del popolo). La critica principale – davvero irrilevante per una fiction – si concentra sul fatto che alcuni episodi sono raccontati in modo diverso da come esattamente accaduti, e si vorrebbe che gli autori lo precisassero nei titoli di coda. Una precisazione davvero superflua, come ha tenuto a dichiarare la stessa Netflix.

La quarta stagione sta avendo un successo enorme, da settimane è tra le serie tv più viste. Il cast si è arricchito di nuove figure femminili come quella di Emma Corin nei panni della giovane Diana, di Erin Doherty in quelli della principessa Anna e quella di una straordinaria Gillian Anderson (X-Files, American Gods, Sex Education) nel ruolo di Margaret Thatcher. Non sono sorprese ovviamente le bravissime Helena Bonham Carter (Harry Potter, Il discorso del Re, Enola Holmesche interpreta la principessa Margaret e il premio Oscar Olivia Colman (La Favorita, The Iron Lady, The night manager) nel ruolo della Regina Elisabetta. Tra gli uomini una menzione particolare va riservata a Joshua O’Connor (La terra di Dio – God’s Own Country, Peaky Blinders, I Durrell) nei panni di un Carlo scontroso, arrogante ed egoista.

L’autore Peter Morgan è già al lavoro per la quinta stagione, che vedremo però solo nel 2022. Probabilmente sarà quella la stagione interamente dedicata a Lady Diana, visto che coprirà il periodo che va dal 1991 fino alla sua morte nell’incidente di Parigi. Ci sarà un nuovo cast per personaggi da raccontare inevitabilmente con qualche anno in più. La storia si concluderà con la sesta stagione: l’autore ha già dichiarato che intende fermarsi almeno a 20 anni prima dai giorni nostri. Anche questa sembra una scelta saggia e condivisibile.