Domenica mattina, è una giornata importante, oggi eseguono in prima assoluta un brano che ho composto. Mi preparo: sono quasi presentabile, anche la forma conta in queste occasioni. Parto e, dopo qualche difficoltà di parcheggio, arrivo a destinazione.

Sala piccola, ma prestigiosa e impreziosita da dipinti d’autore. Mi guardo intorno. Signore non più giovanissime e qualche distinto signore in giacca e cravatta. Io: golf e scarpe comode. Non fa nulla – mi dico – si sa che l’artista può permettersi anche abiti stravaganti.

Uno dei signori incravattati introduce il Presidente della fondazione italiana che parla, con grande eleganza e senso della misura, di quanto la Sua associazione faccia per la cultura, ecc., ecc. Sopporto con pazienza, insieme al pubblico… mio fratello, mio simile. Fine della prolusione.

Inizia la parte artistica. Qualche colpo di tosse e una gentile signora attacca a parlare di due importanti pittori del XX secolo (è un evento che lega musica e pittura).

Il pubblico, dopo il primo quadro proiettato, inizia a leggere i testi sul programma di sala. Cominciamo bene. È la monotonia della voce – mi dico – e, nonostante la buona volontà, anche l’evidente disinteresse della relatrice verso quello che sta dicendo. Almeno spero.

Inizia il concerto. Mi preparo. Primo brano. È un breve ciclo di liriche. Dopo la prima qualcuno applaude. Non è il momento. Torna il silenzio tra gli sguardi severi del pubblico non plaudente. Finisce il ciclo e gli applausi tornano. Dapprima timidi, poi più convinti.

Secondo brano. L’entusiasmo per l’arte dimostrato precedentemente dal Presidente sembra conoscere un lieve cedimento. L’Illuminato sta infatti parlando (ad alta voce!) con il suo vassallo seduto accanto. Un energico richiamo lo zittisce. Si capisce che non è convinto. In fondo c’è solo un signore che sta suonando.

Lui, a casa, quando mette su un CD, parla. Perché qui non si può? “Mah… misteri della musica contemporanea” (è un innocente e bellissima composizione di Villa-Lobos). Applausi.

Finalmente tocca a me. Inizia il primo brano (sono quattro liriche)… bene… il secondo… bene, il terzo, idem… qui, sull’ultima nota della voce si innesta con perfetto tempismo il lieto scampanio delle chiese della città. È mezzogiorno.

I musicisti, cercando di non perdere la concentrazione, tacciono. Il gioioso suono delle campane continua, sembra accanirsi contro il mio mazzetto di canti che sta perdendo la sua coesione.

 

 

All’improvviso, il primo colpo di genio della mattina. Il Presidente (un altro) dell’associazione ospitante (arrivato con quarantacinque minuti di ritardo) decide di giustificarsi con il pubblico presente prendendo la parola in mezzo al brano!

Mi devono tenere, rischio di aggredirlo. Pur incerto sulla non liceità di un paio di ceffoni ben assestati, resto seduto imprecando sottovoce (le signore intorno mi guardano stupefatte). Finiscono le campane ed attacca l’ultimo numero.
La tensione è svanita e, nonostante gli ammirevoli sforzi degli interpreti, anche qualsiasi idea di unità del ciclo. Applausi.

Vado a ringraziare e le signore intorno a me si guardano, ancor più stupite. Proseguiamo tra libretti sfogliati e chiacchiere del secondo presidente (ovviamente sempre a voce alta) con il suo vicino. Bis. Applausi. Game over.

Mi alzo e una signora mi intercetta. Mi fa i complimenti. Le è piaciuto soprattutto l’ultimo dei miei lieder. Due parole e capisco che sta parlando di un altro brano, il terzo. A questo punto la volonterosa musicofila mi concede la vera perla della giornata. Non vuole offendermi: «Non è che gli altri fossero brutti (non sono nemmeno proprio atonali eh!) ma sa, purtroppo ormai dobbiamo abituarci a questa musica».

Sorrido impietrito trattenendo a stento una risata che esplode pochi secondi dopo la partenza della mia fan.

Vado a salutare i bravissimi interpreti e assisto a un’altra chicca. Un ragazzo, alla cantante: «Che brava, sembrava proprio che le emozioni che cantava fossero vere». Amen fratello. Il concerto più istruttivo della mia vita. Viva l’Italia, il paese della musica…

Perché tutto questo? Colpa della musica contemporanea diranno alcuni lettori… peccato che il concerto (a parte i miei brani ed altre due brevi composizioni) non fosse dedicato alla musica d’oggi! In programma c’erano De Falla e Villa-Lobos con alcune composizioni che non esito a definire capolavori.

Peraltro, la prova degli interpreti è stata eccellente, di altissimo livello. Insomma, stiamo parlando di un evento musicale veramente bello.

E allora? Semplice: nessuno in quella sala si è reso conto della realtà di ciò che stava accadendo davanti ai suoi occhi.
Nessun rispetto per i musicisti (torneremo a seppellirli in terra sconsacrata?) e nessuna disponibilità reale verso quello che veniva proposto. Nessuna apertura. Nulla.

Da pulpiti prestigiosi, importanti Maestri del Pensiero Culturale Universale ci spiegano che è tutta colpa del governo ladro (ora la cultura si aggiunge alla pioggia…), che in Italia siamo tutti barbari, ecc., ecc.

Peccato che spesso l’estero si differenzi solo per il formalismo con cui viene rispettata la vuota liturgia del concerto.

La verità è che quello che manca è banalmente e semplicemente un uomo tutto intero che si riservi la facoltà di incontrare la realtà e di giudicarla a partire da quei desideri che per natura lo muovono in ogni azione.

E allora ben vengano anche le manifestazioni di dissenso nelle sale da concerto, segno di una vita che sta ricominciando a riprendersi ciò che è suo.

Meglio una selva di fischi agli applausi vuoti che popolano tristemente i nostri teatri.
Unica condizione perché questo accada: ripartire da sé.