In questa puntata della rubrica del M° Luca Belloni, dedicata al “misterioso” mondo della Musica Contemporanea, dopo aver sentito il parere di esecutori e compositori, Eugenio Andreatta, organizzatore di concerti e appassionato di musica racconta il suo percorso.

Inizio come di consueto domandandole quando è accaduto il suo primo incontro con la musica d’oggi e qual è stata la sua reazione a questo repertorio.

È stato un approccio molto graduale. A 14 anni mi sono appassionato alla musica di Bach, scoprendo a casa mia un vecchio LP de “L’’Arte della fuga”. Così ho comprato moltissimi dischi di Bach, naturalmente a spese dei miei genitori. Non mi piaceva quasi nient’altro.
Ricordo ancora che mi lamentai con un professore del liceo dopo aver assistito a un concerto cameristico con brani di Schubert dicendogli che era stata una noia mortale… suscitando comprensibili reazioni.

Come superò l’integralismo bachiano?

A piccolissimi passi. Cominciai ad appassionarmi anche al jazz. Ma anche qui mi piacevano solo poche cose.
Ricordo che uno dei miei primi album fu una compilation di capolavori di Charlie Parker. Indigeribili per me. Preferivo di gran lunga il pianoforte di Oscar Peterson, che pure è tutt’altro che da buttare. Che “Bird” e Schubert mi perdonino…

E come si fa a fare dei passi in avanti in un territorio musicale sconosciuto?

A me accadde scoprendo John Coltrane, che a differenza di Parker mi piacque subito. Direi che i passi in avanti in terre sconosciute si fanno per due ragioni. Prima perché si incontra qualcosa che colpisce, che ti capita. La seconda per piccoli progressivi sconfinamenti in territori musicali circostanti. Per esempio da Coltrane a Ornette Coleman, che pure all’inizio fu un osso duro.
Per tornare alla sua domanda iniziale, quindi, il mio primo approccio con la musica d’oggi fu jazzistico.

E con la cosiddetta musica colta contemporanea?

Qui viene fuori una terza ragione. Mi sono fidato di un amico compositore e direttore e del suo entusiasmo per il repertorio contemporaneo. Così abbiamo organizzato un concerto nella sala dei Giganti del Liviano a Padova. Musiche tra gli altri di Schoenberg, Stravinsky, Webern, Varése, Britten, Schnittke, Castiglioni. Roba tostissima. Almeno per me. Ma il pubblico alla fine ha apprezzato, soprattutto grazie alla capacità divulgativa del maestro che ci ha offerto adeguate chiavi di lettura delle opere. Bisogna dire poi che la platea era composta soprattutto di amici

Bravo, oltre al concerto ha organizzato anche il pubblico. Previdente…

 

 

Detto così fa un po’ ridere. Però in fondo nella sua banalità questo episodio mostra che la musica d’oggi ha bisogno di una “comunità di ascoltatori” che le preesistano e che possano avvicinarsi ad essa per motivi che, a ben guardare, non sono musicali.

In che senso, scusi?

Ho sempre pensato che, da che mondo è mondo, nessuna musica degna di questo nome sia mai stata composta per motivi formali, intra-musicali, neanche i concerti di Vivaldi trascritti nota per nota con religioso scrupolo da Bach, ma sempre per esprimere il contraccolpo di un impatto con la realtà.
Trovo un’analogia con quello che san Tommaso diceva dell’atto di fede: che non termina in se stesso, ma in una realtà.

E quindi la musica d’oggi?

Penso che quello della musica “d’oggi” sia un falso problema. Se non ascoltiamo la musica d’oggi è perché molto probabilmente non abbiamo mai ascoltato neppure quella di ieri, anche se ci attraversa le orecchie usando codici espressivi più rassicuranti. Il problema è trovare qualcuno – io questa fortuna l’ho avuta – che ti aiuta a capire che il compositore di oggi, come peraltro quelli di sempre, è una persona che sta cercando di comunicarti un impatto con il reale che non saprebbe esprimere con le parole. Non perché sia un analfabeta, evidentemente, ma perché la musica rispetto alla parola è un linguaggio che entra più profondamente nel reale e quindi nel mistero che la realtà implica.

Lei da anni si dedica alla promozione della musica con particolare attenzione alla musica del nostro tempo. Ormai numerosi sono i concerti che grazie a lei si sono potuti realizzare, avvicinando così a un pubblico sempre più vasto quella “strana” musica che, non di rado, incontra inaspettati consensi anche tra gli ascoltatori meno “preparati”. Che valore attribuisce a questa sua opera di diffusione?

Ho amici rompiscatole che continuano a propormi concerti di questo tipo e io, essendo in fondo un debole, non sempre riesco a oppormi. Finora però non è andata male.

Qual è la soddisfazione maggiore per chi propone proprio questo particolare repertorio?

Vedere persone che fino ad oggi avranno ascoltato sì e no Chopin che al termine di un concerto ti dicono: “Però! Non ho capito molto, ma mi ha colpito”. Ma forse il problema è che noi, che invece siamo convinti di capirne, quando ascoltiamo Mozart non diciamo la stessa cosa.

C’è qualche evento da lei organizzato cui si sente particolarmente legato? Per quali motivi?

Forse proprio il primo concerto di cui ho parlato, perché era quello più “senza rete”, organizzato da incoscienti.

Per concludere le chiedo di indicarci un brano che vuole proporre ai nostri ascoltatori dandoci qualche elemento per comprenderlo meglio

Proporrei un brano jazzistico, Sadness di Ornette Coleman, suonato alla Town Hall di New York nel 1962 in trio con Charles Moffett alla batteria e uno straordinario e inquietante David Izenzon al basso (Clicca qui). So che non rischio molto, trattandosi di un classico, ma è stato un brano che mi ha offeso a lungo, o forse che non ho voluto ascoltare perché “dissonante” – più che un aggettivo, un alibi – finché non ho sentito che era solo canto, canto puro, una melodia disarmata e lacerante.

E se invece fosse un brano di musica contemporanea?

Amo troppo la Messa “fredda, assolutamente fredda”, “realmente liturgica”, e “quasi priva di ornamenti” di Igor Stravinsky, un altro che evidentemente non aveva il problema di “fare buona musica”, ma registrare l’impatto con il reale, ad esempio con un testo che custodisce un’esperienza (Clicca qui). Lui addirittura usa in modo commovente il verbo proteggere: “Nel musicare il Credo volevo proteggere in modo particolare il testo. Come si compone una marcia per facilitare chi sta marciando, così io spero con il mio Credo di fornire un aiuto al testo. Il Credo è il tempo più esteso. C’è molto da credere”.

 

 

Stravinskij – Messa – Credo