In questo nuovo appuntamento della rubrica “The Day After Tonality”, dedicata alla musica contemporanea, Luca Belloni incontra il chitarrista Piero Bonaguri, che questa sera sarà protagonista al Centro Culturale di Milano del concerto “La forma è il cuore”, in occasione dei 50 anni della morte di Heitor Villa-Lobos.
Caro Maestro, come di consueto inizio la nostra conversazione domandandole di raccontarci il suo primo incontro con la musica d’oggi.
A parte la musica di mio padre che ho ascoltato fin dalla nascita, il mio primo incontro con la musica del nostro tempo è coinciso probabilmente con l’esecuzione dell’intenso Adagio per archi di Samuel Barber cui ho assistito da bambino.
Ricordo poi alcuni spartiti che mi prestava il Maestro Battelli con cui studiavo chitarra da ragazzino. Lui aveva tanta musica e io ero un avido lettore, affascinato anche da questi suoni “strani” contenuti in alcuni di questi spartiti, oltre che dal colore armonico di pagine di Villa-Lobos, Torroba, Tansman, Ponce (che invece era sostanzialmente la “musica contemporanea” scritta per Segovia). La spinta decisiva in questa direzione fu poi l’amicizia con Pippo Molino – uno dei miei compositori preferiti – e il suo invito a non trascurare la frequentazione del repertorio contemporaneo per avere una formazione più completa come interprete.
All’inizio degli anni Ottanta ebbi l’occasione di incidere il mio primo disco: la casa editrice Edi – Pan era interessata a pubblicare dischi di pezzi editi da loro, e per questo cominciai a incontrare compositori chiedendo loro di scrivere per me in vista di questo progetto. Da questa occasione nacque poi tutto il resto; sintetizzabile nella nascita di un repertorio di ormai più di duecento pezzi da me sollecitati e tenuti a battesimo. Nonostante non mi riconosca nell’etichetta di “specialista di musica contemporanea”, devo ormai fare i conti con l’imponenza di questo repertorio, forse più unico che raro, la responsabilità verso il quale segna ormai non poco la mia attività presente e i miei progetti futuri.
Nel corso della sua attività lei ha incrociato il cammino di numerosi compositori che hanno composto per lei. Quanto ha inciso questa frequentazione sul suo modo di vedere lo strumento e quanto, a suo parere, l’incontro con la chitarra ha stimolato la fantasia degli autori?
Amo dire che, come le esperienze di musica cameristica con altri strumenti, il lavoro con i compositori è stato ed è per me una vera scuola. Per varie vicende la mia formazione musicale è stata un po’ irregolare (ho terminato il Conservatorio abbastanza tardi essendone prima entrato e uscito un paio di volte) anche se ha avuto da subito degli input fantastici come il rapporto con Alirio Diaz, che il Maestro Battelli mi fece conoscere quando avevo appena dodici anni.
Da ragazzo però ascoltavo poca musica che non fosse per chitarra e avevo anche un certo sospetto verso gli inviti alle aperture culturali che sentivo arrivare da Segovia e da Diaz o dalle colonne della rivista “Il Fronimo”.
Far musica da camera con musicisti importanti e vivere il rapporto con compositori non chitarristi , assieme al decisivo incontro con Segovia, mi ha fatto uscire da una visione musicale “chitarrocentrica” per entrare in un mondo più grande, recuperando anche il valore della chitarra come strumento (e che strumento!), ma per fare musica. Mi sono accorto che tendevo ad ascoltarmi in modo parziale, mentre suonare con altri porta a considerare l’esigenza di andare avanti, di pensare alla frase, alla forma.
Per i compositori il suono è parte di un pensiero creativo per cui si capisce il che “bel suono” chitarristico non è una idea astratta e preconcetta, ma è il suono che serve al pezzo che si suona – se serve il graffio, il bel suono in quel momento è il graffio.
D’altra parte ho imparato nel tempo a non buttar via le mie impressioni personali di fronte alla musica, anche quelle che avevo da ragazzino e di cui allora non sapevo dare ragione; in qualche modo, man mano che queste impressioni si precisavano e consolidavano, si riempivano di ragioni e diventavano giudizi, sono diventato un interlocutore sempre più personale dei compositori che incontro, così che abbastanza spesso i pezzi nati da un vero incontro mio con i compositori mi appaiono diversi da altre cose scritte dagli stessi autori.
In qualcuno di loro poi c’è stata una iniziale resistenza verso la chitarra, che poi nel tempo è caduta quando lo strumento ha manifestato potenzialità espressive per loro interessanti. Del resto mi piace che i compositori siano coinvolti anche nella storia interpretativa dei loro pezzi, che li ascoltino in concerto, eccetera.
Per esempio, Gilberto Cappelli ascoltò una volta un concerto in cui suonavo con la chitarra amplificata e da quella volta vuole che nelle sue composizioni la chitarra sia amplificata per potere utilizzare anche compositivamente delle nuances e possibilità dinamiche che solo l’amplificazione permette di percepire o utilizzare. Adriano Guarnieri invece ha intravisto nella chitarra la possibilità di emulare gli effetti del live electronics…
Le sue interpretazioni sono caratterizzate da un’attenzione vivissima per ogni dettaglio della partitura e, nel contempo, da una grande vitalità e da una capacità innegabile di coinvolgimento dell’ascoltatore. Ci può dire come affronta lo studio di un brano e come sceglie il repertorio da eseguire nelle diverse occasioni concertistiche?
Grazie per i complimenti… che possono indicare aspetti che fanno parte almeno della mia ricerca da quando ho iniziato coscientemente a “studiare” Segovia, a partire da quel fondamentale corso di Ginevra che frequentai nel 1982.
Mi spiego. L’“attenzione vivissima al dettaglio” la ricollego a quanto Segovia diceva – e testimoniava suonando -: «occorre intervenire sul pezzo, senza fermarlo»; la vitalità, alla sua idea di interpretazione come “sintesi in continua espansione” ed “esplosione di libertà”; infine il desiderio di coinvolgere l’ascoltatore lo collego alla esortazione che Segovia faceva all’interprete a non innamorarsi mai di se stesso ma a essere vicino, col dono ricevuto, a ogni altro uomo. Sostanzialmente quando studio un pezzo cerco proprio quella “sintesi in continua espansione”; anche dopo decenni di “convivenza”, sono sempre alla ricerca di un significato sempre più completo di quel pezzo, in cui ogni dettaglio, ogni suono (idealmente…) illumini e sia illuminato da tutto il resto.
E poi ho repulsione per salire sul palco a fare una cosa che non dica niente a chi ho davanti a me. Certo, prima deve dire qualcosa a me! A volte mi capita di decidere di studiare o di riprendere un pezzo perché mi sento come “chiamato” da quel pezzo; nel senso che mi viene in mente in modo imprevisto e insistente, con l’urgenza di qualcosa di importante per me e che vorrei “dire”. E anche quando la decisione di studiare un pezzo nasce da altri motivi la cosa diventa interessante quando a un certo punto scatta quel “richiamo”.
Cerco poi di formulare dei programmi che aiutino chi ascolta a entrare nella bellezza della musica. Anche in questo mi piace studiare Segovia, vedere come impostava i programmi, che accostamenti proponeva; e poi tutto questo va adattato a chi ci si trova di fronte oggi.
Lei da molti anni affianca l’attività concertistica e quella didattica in Conservatorio a corsi di perfezionamento che affrontano e approfondiscono svariate tematiche ed autori. Ci può dire quali sono i suoi progetti futuri in questo ambito?
Anche l’insegnamento è un po’ come il suonare, per me: coinvolgere nella mia avventura della scoperta della musica altre persone, che siano un pubblico o degli allievi.
Oltre alla attività in Conservatorio da anni tengo dei corsi estivi o annuali; l’anno scorso ne ho fatto uno su Villa-Lobos, in occasione della uscita del mio cd per la collana discografica “Spirto Gentil” e dell’anniversario della morte del compositore.
Il corso in effetti è stato anche per me una bella occasione di approfondimento e di nuove scoperte.
Quest’anno vorrei rischiare su un corso incentrato proprio sul repertorio di musica scritta per me. Il corso si terrà ancora a Faenza, presso la Scuola Grande di San Filippo, istituzione con cui in questi anni sta maturando un bel rapporto di collaborazione artistica.
Alcuni valenti compositori hanno accettato di scrivere pezzi nuovi e non difficili per questo corso, per affiancarli a quelli ormai “storici” del mio repertorio, in modo che il corso risulti accessibile anche ad allievi che non hanno ancora una particolare esperienza di affronto della musica contemporanea.
Iniziamo con un concerto mio il 6 dicembre a Faenza nel quale vorrei eseguire anche qualcuno di questi nuovi pezzi scritti per il corso.
Essendo dedicatario di numerosissimi brani, spesso molto diversi fra loro per stile ed estetica, lei avrà certamente maturato una sua convinzione sull’importanza del linguaggio nella comunicazione musicale. Cosa pensa in proposito?
Credo che non ci si possa nascondere che la cultura e la musica oggi sono segnate da un malessere quasi da “fine di un’epoca”. La condizione lacerata e “dissestata” dell’uomo contemporaneo si riflette anche nella musica. È una circostanza inevitabile («Non possiamo evitare di essere contemporanei» diceva Stravinski) e la stessa diversità di posizioni (e quindi di linguaggi) rispetto a questo io la leggo come la differente reazione a un dato di fatto comune.
Pure, dentro questa circostanza, io ci sono, altri ci sono; e da questi “io”, con tutto quel che è implicato come storia, conoscenze, desideri, intuizioni, dramma, si generano anche oggi parole, immagini, musica – perché l’io non si può ridurre a fattori antecedenti, anche di tipo socioculturale!
Anche in musica a me interessa, perché mi fa crescere, tutto quello che di autentico esiste oggi, si esprima come si esprime. E se è vero, come ha detto qualcuno, che in un’epoca come la nostra non potrebbe nascere un Dante Alighieri – o, come diceva Testori, che l’arte di oggi parla di Dio parlando della sua assenza – ci sono squarci di verità umana, resi forse ancora più puri da questa condizione estrema, che sento di non potere permettermi di ignorare.
Uno dei “miei” compositori diceva: «Se nella mia musica c’è il grido, è perché spero che qualcuno risponda». Chi poi – più o meno grande artisticamente – riesca anche, per grazia più che per bravura, a testimoniare una positività vincente ora, a costruire con nuovi mattoni, nuovi linguaggi, come profetava Eliot ne “I cori della Rocca”, – e sono in realtà oggi pochissimi – è come l’inizio di qualcosa che fiorirà e darà frutto maturo chissà dove e quando. Siamo in un’epoca di passaggio, la fine di un mondo, ma anche un nuovo inizio… Nei quadri dell’ultimo Congdon, per fare solo un esempio, io vedo questo, una luce oltre la notte, un “bagliore roseo” – per usare un verso di Ungaretti.
Da molte parti si denuncia un allontanamento del pubblico dalla musica “colta” in generale e, particolarmente, dalla cosiddetta “musica contemporanea”. Secondo lei quale può essere una strada per riavvicinare il pubblico a questi generi musicali che hanno così tanto da offrire?
Ci si allontana in realtà dal proprio cuore: è un aspetto terribile di questo nostro tempo; se penso a me o al mio ambiente di lavoro posso dire che chi si dedica o frequenta concerti di musica classica non è automaticamente immune da questo pericolo – non parliamo poi delle faziosità, dei particolarismi: i cultori della “contemporanea”, quelli della musica antica o di …chitarra!. Non credo che la risposta venga da circoli di intellettuali “illuminati”…
L’amore (non il pallino!) per la grande musica rinasce dove c’è una umanità educata a fare i conti con questo “cuore” che ciascuno di noi ha; allora anche chi non ha studiato musica diventa o ridiventa capace di commuoversi per un bel canto popolare come per una sinfonia di Beethoven, ma anche per Stravinski. Certo, anche il gusto va educato.
Da parte di chi fa questo mestiere occorre la volontà di mettersi in gioco con il pubblico a questo livello, usando del dono ricevuto per incontrare tutti, come diceva Segovia; le forme poi possono essere tante, è anche il momento di sperimentare strade nuove (con tutta l’ironia di tentativi riformabilissimi). Ad esempio, la lunga serie di concerti di presentazione del cd su Villa-Lobos in cui sono coinvolto in questi mesi – e in generale i concerti di presentazione della collana “Spirto Gentil” ai quali assisto anche stando dalla parte del pubblico – mi confortano mostrandomi che questo incontro tra la grande musica e la gente è ancora possibile. È importante anche che chi ha questa intuizione si “metta insieme” perché resistere da soli contro un’onda che va da un’altra parte è impossibile.
Concludo questa piacevole conversazione chiedendole di proporre ai lettori de Ilsussidiario.net uno o più brani del suo repertorio aiutandoci a comprendere le composizioni e le motivazioni delle sue scelte.
Propongo due pezzi recentissimi tra quelli che ho “fatto nascere”, o che, più modestamente, ho chiesto ai compositori di scrivere. Uno è l’espressionistico “Per Maurizio” di Gilberto Cappelli, scritto per un concerto in memoria del mio amico Maurizio Biasini, recentemente scomparso, che anche Cappelli aveva conosciuto. È il suo modo di partecipare, con un linguaggio “estremo” ma così coinvolgente, al grido di dolore per questa tragica scomparsa.
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L’altro pezzo è nato per un concerto di musica sacra sul gregoriano; si tratta del “setting”, come si dice oggi, di una melodia gregoriana, “Quasi Modo”, realizzato per chitarra sola da Paolo Ugoletti.
Un mio allievo dopo averlo ascoltato ha scritto: “mi viene da sorridere con le lacrime negli occhi: la melodia della letizia sopra la dissonanza del dolore. È semplice e penetrante. È un sorriso sincero che non censura la sua natura…”.
Sono due pezzi nuovi dei due compositori che hanno scritto di più, in termini di quantità, per me; e che, al di là delle ovvie differenze linguistiche, sento accomunati da una sincera tensione espressiva unita a doti artistiche d’eccezione e a una particolare capacità di scrivere per chitarra, pur non suonandola.
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