Terza puntata della rubrica dedicata alla Musica Contemporanea a cura del M° Luca Belloni.
Il chitarrista Luciano Chillemi racconta le tappe del proprio percorso artistico e propone due brani: “Homenaje (Le tombeau de Debussy)” del compositore spagnolo Manuel De Falla e “Di Lievi Rintocchi” della compositrice bolognese Chiara Benati.
Buona lettura e buon ascolto!

Caro Maestro, inizierei la nostra conversazione domandandole le ragioni di un inizio: quando e perchè ha cominciato a interessarsi, come musicista e come interprete, alla musica d’oggi?

Mi sono avvicinato alla musica “contemporanea” d’istinto, per curiosità, senza premesse particolari, come può accadere a un giovane chitarrista che avverta il bisogno di incontrare pagine dal carattere espressivo diverso rispetto a quelle del repertorio “tradizionale” e che per questo intuisca, anche se confusamente, nelle atmosfere armoniche e nelle ricerche timbriche di alcune opere contemporanee la possibilità di una più profonda e personale immedesimazione. Sono stato spinto dal bisogno di rivolgermi al presente, di partire dal contemporaneo, anche per capire il passato.
Questo interesse, che aveva in me dei precedenti come ascoltatore di musica contemporanea tramite la radio (spesso alzandomi presto alla mattina, Radiocorriere alla mano), è diventato più preciso nell’incontro con il mio insegnante di Conservatorio Ennio Guerrato: ricordo benissimo quando in classe provava un brano di cui poi avrebbe dato la prima esecuzione e mi sentivo coinvolto in un clima di scoperta di qualcosa di bello anche se di una bellezza un po’ nascosta e che perciò reclamava in modo particolare la partecipazione attiva dell’interprete, mani, respiro, intelligenza e cuore.
Nel corso della mia attività ho ritrovato questa dimensione soprattutto quando ho studiato opere contemporanee.

Il suo lavoro interpretativo è sempre stato caratterizzato da un atteggiamento di ricerca della profondità attraverso la frequentazione di un repertorio che, come nel caso di Benedetti Michelangeli per il pianoforte o di Carlos Kleiber per la direzione d’orchestra, viene scelto per il grado di affinità che lei sente con le singole pagine. Lei adotta questo atteggiamento anche nei confronti delle pagine del repertorio contemporaneo, equiparandole di fatto ai lavori dei grandi Maestri del passato. Ci può parlare di questo suo modo di lavorare?

Si parva licet componere magnis… Questa sottolineatura del mio approccio al repertorio contemporaneo, non da “specialista” è qualcosa che fa piacere sentirsi rivolgere. Posso dire, parafrasando il pittore Bill Congdon che non sono mai riuscito a fare qualcosa da una posizione “oggettiva”… mi ritrovo a fare così…

Un altro aspetto, fra i tanti, che ritengo molto interessante del suo lavoro è il rapporto che ha instaurato con diversi autori che hanno composto brani appositamente per lei. Ci può parlare di questa sua esperienza?

Questa affinità, come si diceva nella domanda precedente, ha avuto bisogno di incontri, verifiche per chiarirsi, per svelare cosa contenesse oltre la curiosità per il repertorio della musica d’oggi. È quest’ultimo un territorio dove, impegnati a risolvere una certa e a volte notevole complessità tecnica – strumentale o di linguaggio – di una pagina, può capitare implicitamente di eludere la domanda su quale ne sia il reale spessore artistico e perciò umano, non giungendo così a una vera sintesi interpretativa che è la risposta (ovviamente musicale) a quella domanda. Ma anche qui sono stati fondamentali gli incontri con alcuni compositori, con l’evidenza della bellezza di certe loro pagine che avvertivo come conferma della bontà del cammino intrapreso.
In queste collaborazioni ho anche ritrovato quel clima da creation, come i francesi chiamano la prima esecuzione di un brano.
Grazie all’apprezzamento degli autori per il mio lavoro ho colto poi quale sia l’importanza dell’interprete, avvertendo un po’ meno l’invidia nei confronti di chi, in quanto compositore, padroneggia il linguaggio musicale in modo più specifico.
Viene in mente quello che dice Simenon in un romanzo di Maigret per accennare al suo metodo investigativo, e cioè che non ne aveva nessuno se non un’empatia, un’immedesimazione, una compassione umana con le persone e gli ambienti, ma non una strategia. A un livello diverso dice lo stesso Stravinskij quando nega validità all’utilizzo di “metodi per comporre” affermando che risolvere i problemi che la composizione pone è il gusto più vivo che prova e che i metodi, ammesso che ne esistano, gli sottrarrebbero proprio questo piacere della scoperta.
Con il tempo mi sono accorto che ci sono opere che poi ti restituiscono il lavoro profuso in un certo modo (lo studio serve a permettere loro di alzarsi e camminare) e altre che sono più ingrate… poi si capisce che è proprio il sintomo della bellezza che quando c’è si fa strada e si impone oltre il legittimo atteggiamento dell’interprete che in qualche modo tende a prendere le difese del brano che suona. Perciò mi rendo conto che è importante per me e per chi mi ascolta proporre opere che abbiano un reale valore, non solo che siano ben scritte o che “funzionino” come si usa dire.
Quando da piccolo assistetti a uno dei primi concerti mi ricordo che alla fine uscii con questa domanda “a cosa serve?”. È una domanda che riaffiora nella misura in cui l’orizzonte non è determinato dalla musica, è facile stando con amici non musicisti farci i conti.
Mi sembra che il problema della trasmissione del sapere musicale sia oggi più che mai centrale soprattutto alla luce del progressivo impoverimento della stoffa umana, ancor prima che artistica, dei giovani musicisti.

Lei insegna da molti anni in Conservatorio: come imposta il suo lavoro didattico e che valore gli attribuisce?

Vorrei rispondere a questa domanda citando degli episodi che mi hanno colpito anche perché hanno scalfito una certa routine in cui pare prevalere quell’impoverimento di cui si accennava  prima. Mi sono accorto di come sia essenziale l’emergere di un coinvolgimento personale nell’allievo. Ad esempio può accadere che chi viene a lezione solo nel suo orario prestabilito a un certo punto invece si fermi ad ascoltare la lezione del compagno: a quel punto ti accorgi che è lì con una tensione diversa, ciò che sta suonando l’altro comincia a interessare anche lui.
Incrociare questa curiosità, “indovinare” che è scattato qualcosa, fa iniziare una grande e bella responsabilità per l’insegnante: mi sembra che solo da qui si possa realmente costruire. L’altro aspetto fondamentale dell’insegnamento è che si propone in realtà solo ciò su cui si è veramente al lavoro in prima persona: ci si accorge di dover ripensare anche pezzi che suoni da anni nel momento in cui li si propongano a un allievo perché li studi. Da questo punto di vista capisco la frase di Schönberg nella prefazione al suo manuale di armonia: «Questo libro l’ho imparato dai miei allievi».
Un altro episodio mi ha fatto capire la necessità di insistere nel proporre una tradizione e come quest’ultima a volte vada a influire anche nei particolari più piccoli. Una volta, spiegando perché conveniva seguire la diteggiatura suggerita da Andrés Segovia in uno Studio di Fernando Sor (autore spagnolo del primo Ottocento) e chiarendo come le scelte timbriche che essa implicava chiarissero la forma del pezzo perché ne assecondavano lo sviluppo del discorso, ho notato nell’allievo una certa sorpresa e interesse tanto che mi è venuto da dire: «Vedete, un Maestro è uno che posso seguire passo passo. Esiste una tradizione che emerge maggiormente in alcune figure: Segovia qui non ha solo in mente che le dita facciano le note con poca fatica…».
Ora è fondamentale percepire fisicamente questo legame con una tradizione, riscoprirla verificando come semplifichi e lanci in una ricerca più personale cosa che può portare a esiti anche molto originali evitando quel “girare a vuoto” che spesso è la croce dei giovani musicisti.

Per concludere, ringraziandola per la disponibilità, le chiedo di raccontarci il suo personale approccio ai due brani che ha deciso di proporre ai nostri lettori e di indicare le ragioni della sua scelta.

Il primo brano che intendo proporre è l’Homenaje scritto per la morte di Debussy dal compositore spagnolo Manuel De Falla. Qui la profondità umana del brano può essere colta a prezzo solo di non lasciarsi distrarre dalla varietà degli episodi e da quel clima a volte raffinato a volte più rude e spagnolo che non deve essere frainteso nel suo significato.
Di fronte a questo brano, generalmente ritenuto una delle pagine più importanti per chitarra, il rischio che si corre nel migliore dei casi è darlo per scontato perché di un autore importante e non chiedersi: «Che cos’è quel clima andaluso e quelle suggestioni impressioniste? E cosa c’entrano con me?». Il pregio del pezzo è comunque che alla fine è semplice, della semplicità dei grandi, e se rispettato nella sua unitarietà dice ciò che ha da dire in modo diretto.

Esecutori
Luciano Chillemi, chitarra

Registrazione dal vivo

Il secondo brano è Di Lievi Rintocchi… un pezzo per chitarra e pianoforte della compositrice bolognese Chiara Benati.
Mi è sempre piaciuto dialogare con gli altri musicisti, in questo caso l’amico pianista Giuseppe Fagnocchi. Per questo però occorrono pagine non generiche nell’utilizzo delle risorse strumentali della chitarra che tenderebbe per le sue caratteristiche a privilegiare una dimensione principalmente solistica.
La bellezza del brano secondo me parla da sola, vorrei qui solo far osservare appunto come l’associazione di chitarra e pianoforte sia assolutamente al servizio delle idee musicali… ecco, essere al servizio è forse una delle espressioni che più colgono qualcosa della vocazione dell’interprete.

Esecutori
Luciano Chillemi, chitarra
Giuseppe Fagnocchi, pianoforte

Registrazione dal vivo