Quarta puntata della rubrica dedicata alla Musica Contemporanea a cura del M° Luca Belloni.
Il musicologo, pianista e compositore Maurizio Biondi illustra le ragioni di un approccio aperto alla musica, al di là delle diverse epoche e dei differenti stili.
Il brano proposto ai lettori, che come sempre possono commentare e porre delle domande, è il Quartetto per archi N.3 Op.30 di Arnold Schönberg.
Buona lettura e buon ascolto!
Caro Maestro, negli incontri proposti da ilsussidiario.net siamo soliti partire dall’origine. Ci può raccontare il suo primo approccio alla musica e in particolare quello alla musica “contemporanea”?
Potrà sembrare strano, ma la Palermo degli anni Settanta dove mi sono formato musicalmente era una città davvero viva e interessante. E questo non solo per l’emergere di una sotterranea vocazione mitteleuropea (credo di avere sentito nei miei concerti giovanili tutta la più importante produzione cameristica tedesca), ma anche per effetto di quelle “Settimane di Nuova Musica” che hanno segnato un capitolo importante del secondo Novecento (non solo italiano).
Certo, quella stagione culturale è stata anche piena di storture estetiche e ideologiche, ma non posso negare che ha contribuito a darmi uno sguardo a tutto campo: come dire, dal canto gregoriano all’avanguardia. È possibile che, in seguito, il mio rapporto con la musica sia in parte mutato o che sia mutato l’intero rapporto tra la musica e il mondo.
Se mi guardo indietro, quello che mi colpisce di più – passatemi la definizione un po’ pomposa – è la “dimensione della persistenza”. Lo dico riferendomi sia alla sterminata storia umana, sia alla mia piccola storia personale. Personalmente, non vedo in tutta la musica mutamenti così decisivi da richiedere un “approccio” diverso a seconda del brano (medievale, barocco, romantico, moderno, contemporaneo) che si ha davanti. Per me è stato così fin dai primi ascolti. Ho sempre avuto l’impressione che la musica (o meglio: tutta la musica bella, vera e grande che ogni epoca riesce a produrre) parlasse sempre e solo della stessa cosa: un modo di “sentire” che forse non viene solo dalla mia formazione, ma mi appartiene e basta. Un regalo, per come la vedo io.
Tengo a sottolineare che, in proposito, devo moltissimo a mio padre e alla sua capacità di penetrare l’essenza di opere quanto mai diverse per epoca, stile e poetica, con un’intensità che raramente ho ritrovato in altri. Tanto che, pensando a lui, mi sembra che Busoni abbia torto nel dire che la musica è un’arte fatta essenzialmente per i musicisti, gli unici in grado di capirla veramente. Mio padre era medico.
Lei è musicologo, pianista e compositore e i suoi interessi spaziano anche in ambito teatrale, nel quale ha inventato le bellissime “scene” o “dialoghi” da Concerto che negli ultimi anni hanno visto un numero sempre crescente di (inconfessati) imitatori. Ci può dire qualcosa di più su questa particolare forma di spettacolo musicale e sullo spunto da cui è stata originata?
Credo che tutto nasca da un pungolo creativo che mi accompagna da sempre e, soprattutto, da un mio bisogno di comunicare, di condividere l’esperienza musicale (e la riflessione attorno ad essa) con una cerchia di interlocutori più ampia e non specialistica. Questo non significa che il mio lavoro musicologico e didattico venga messo da parte: al contrario, è come se fosse cresciuto in un modo che mai avrei saputo prevedere e immaginare, conquistando altri spazi e altri strumenti espressivi. Mi sembra che questi miei monologhi (attorno e dentro alla musica) mi permettano di mettere insieme vari aspetti di quello che sono o che vorrei essere: didatta, storico, saggista, poeta, drammaturgo. E in questo calderone di figure ci metterei dentro anche quella, per me così importante, di colui che guarda alla musica come un semplice innamorato.
Perché, alla fin fine, il metaforico personaggio di questo metaforico teatro è proprio lui: uno che, contenendo a fatica l’emozione e lo stupore, tende un dito verso una cosa che ama per dire a tutti: “ma non vedete quanto è bella?”
Nella sua attività lei ha incrociato spesso le traiettorie di compositori del secolo appena terminato, sul quale, artisticamente, grava ogni sorta di pregiudizio. Ci può dare qualche spunto per introdurci alla comprensione del suo atteggiamento nei confronti di questa musica così piena di tesori?
“Così piena di tesori”, appunto. E già questo basterebbe a giustificare il fatto che si trascorra un’intera vita (anche se questo non è propriamente il mio caso) a indagare, interrogare e rivisitare questo pezzo di storia musicale. Mi riferisco in modo particolare al cosiddetto Novecento storico e a quella sua galleria davvero impressionante di grandi, grandissimi compositori: Schönberg, Berg, Webern, Stravinskij, Janácek, Britten, Bártok, Šostakovic e tutti gli altri. Quando parlo di “tesori” intendo certo la ricchezza e l’originalità compositiva di questa musica, ma soprattutto il suo lascito morale, la sua densità assolutamente incredibile di contenuti umani e spirituali.
Per quanto mi riguarda, se provo a gettare uno sguardo su tutta la storia della musica non riesco a trovare qualcosa di paragonabile a questo. Sembra quasi un paradosso (ma forse non lo è affatto) che proprio un secolo come il Novecento – così lacerato, così attraversato dal dubbio, dalla crisi, dalla tentazione nichilista – si sia invece avvicinato con tanta forza a una radicale esperienza di verità. E dico proprio di verità.
In ultimo, mi sembra che questa musica sia riuscita a salire così in alto proprio perché spinta dalla ricerca di una diversa e particolare forma di bellezza. Magari una bellezza a tratti molto impervia, ma sicuramente autentica, sostanziale e profonda come poche altre.
Da molto (oserei dire da troppo) tempo un equivoco grava sull’approccio alle arti e alla musica in particolare: la confusione tra “bello” e “gradevole”. Lei cosa pensa in proposito?
Penso che forse sono davvero invecchiato o démodé, perché non riesco proprio a capire cosa c’entri il “gradevole” con la vera musica e, in generale, con qualsiasi forma d’arte degna di questo nome. Potrei definire “gradevole” una doccia calda o una bevanda rinfrescante, ma non quel particolare prodotto del cuore e del pensiero umano a cui chiedo di dirmi qualcosa di importante sul mio destino e sul senso delle cose. Da questo punto di vista, lo spirito New-Age che domina la nostra epoca ha prodotto effetti devastanti. I suoni, quando non piegati all’ottundimento e a una specie di nuova violenza tribale (vedi le discoteche), diventano appunto lo strumento privilegiato di questa dimensione del “gradevole”, sono la cornice essenziale del relax, del disimpegno, della tiepida dimenticanza di sé, del comfort consumistico. Ovviamente, questo non significa che la musica debba bandire ogni piacevolezza e porsi, sempre e comunque, come oggetto di una faticosa conquista. Tuttavia, se l’orecchiabilità non è affatto un difetto o un connotato artistico inferiore, di per sé non è neppure una qualità, un assoluto metro di valore. Mi sembra che nella grande musica, anche in quella di più immediata presa, si trovi conferma di tutto ciò. Non c’è sensuale aria di Puccini, frizzante valzer di Johann Strauss o carezzevole notturno di Chopin che non aggiunga sempre qualcosa in più, qualcosa di diverso, alla sua pura e semplice capacità di sedurre le nostre orecchie. O anche solo di intrattenerle “gradevolmente”.
Uno degli elementi caratterizzanti della rubrica “The Day After Tonality” è l’offerta di ascolti che aiutino a comprendere meglio quanto detto nell’intervista. Chiedo dunque anche a lei di scegliere dei brani da condividere con i lettori e di introdurci alla loro comprensione.
Grazie dell’opportunità. Peraltro, questa bella idea dell’intervista con ascolto finale mi fa pensare ai miei spettacoli che convergono sempre, in modo culminante e conclusivo, sulla musica. Vi propongo dunque Schönberg, autore oggi non certo in auge e che, invece, occupa un posto molto speciale nel mio personale “Paradiso dei musicisti”: al punto che la sua Suite per sette strumenti mi ha dato lo spunto per uno spettacolo dal titolo “L’opera creata”.
Per questa occasione, tuttavia, ho voluto scegliere qualcosa di diverso e, anche, di più circoscritto: il secondo tempo dal Quartetto per archi op. 30.
Per un momento sono stato tentato di aggiungere (in apertura) qualche altro ascolto da opere tonali del primo periodo. Verklärte Nacht, ad esempio: e magari, quella specie di duetto d’amore tra viola e violoncello che, verso la fine dell’opera, sembra rivendicare il suo potere di far piangere i sassi e anche le signore in pelliccia del turno pomeridiano. D’altronde, pensavo, è giusto mostrare le radici ottocentesche della modernità dodecafonica e gli antenati (ancora comprensibili e “gradevoli”) di quegli accordi così terribilmente duri. E invece no. Perché mi sono accorto che in questo lodevole proposito si annidava involontariamente l’intento, questo un po’ vile e meschino, di attribuire al musicista una patente di legittimità a cospetto dei suoi ascoltatori più recalcitranti e sospettosi. Come a dire: “avete visto che musica ben fatta ed espressiva ha saputo scrivere una volta? Dunque, fidatevi anche adesso”. Ma questa rassicurazione, in realtà, è doppiamente superflua. Primo, perché il passato che fonda questa modernità non sta fuori di essa, non va artificialmente richiamato né dall’esterno né dal fondo della nostra memoria, bensì è tutto là dentro, intatto, come carne e sangue di un vivo corpo musicale. E secondo, perché questo stesso passato si trasforma senza residui in presente, in futuro, e sta interamente al servizio di una rivelazione perfettamente compiuta e paga di sé stessa.
Credo che solo in questa prospettiva le cosiddette “dissonanze” possono smettere di apparirci come le varianti tristi e distorte di forme un tempo armoniose, e diventano esse stesse modelli fondanti a cui appartiene, per diritto, il senso dell’organicità e della bellezza.
Come ci dice lo stesso Schönberg: «Sono convinto che un giorno si riconoscerà come queste scoperte siano legate a quanto di meglio ci offrivano i nostri modelli. E per questo mi attribuisco il merito di avere scritto una musica veramente nuova, basta sulla tradizione e quindi destinata essa stessa a diventare tradizione».
Buon ascolto!
Schönberg – Quartetto per archi N.3 Op.30, Mvt. II
Esecutori
Quartetto Kolisch, sotto la supervisione del compositore