Nel piccolo percorso che la nostra rubrica dedicata alla Musica Contemporanea (The Day After Tonality) sta compiendo e dalla discussione con i lettori emerge  un possibile equivoco sul tema della bellezza e su ciò che con questa parola normalmente si indica.
“Bello” sembra nella maggior parte delle volte ridotto a sinonimo di inoffensiva gradevolezza, ovvero di un fenomeno che come prima caratteristica abbia la stimolazione (non esagerata) dei nostri sensi e dei nostri sentimenti ma che, essenzialmente, non ci chieda nulla. Un’idea di “bellezza” (e quindi di arte?) intesa come narcotico, strumento di ottundimento dei sensi e della ragione: una sana (?) evasione dalla realtà che ci aiuti a sopportare (o almeno ad alleggerire) il carico che il tran-tran quotidiano pone sulle nostre spalle.
In maniera nemmeno troppo velata però questa posizione ne nasconde un’altra, ben più insidiosa e distruttiva: non voglio (non riesco?) ad affrontare la realtà e dunque cerco ogni mezzo per fuggire, per evitare di pormi (e di farmi porre) domande troppo impegnative. Ma la realtà resta lì, monolitica, con la sua dirompente e imprevedibile forza e mi costringe ad affrontarla ogni giorno. Ecco, l’imprevedibilità sembra uno degli elementi che costituiscono il maggior ostacolo alla nostra realizzazione, di contro si prova l’insopportabile fastidio per una ripetitività che sembra non lasciare scampo. E allora? Dove trovare una via d’uscita? Evidentemente è necessario imparare ad affrontare la vita per quella che è, senza sconti e senza ridurla ad opinione. Ed è qui, secondo me, che la musica d’oggi mostra tutto il suo valore, recuperando quella bellezza che di fatto si è perduta, riducendola al fantasma di se stessa (la mera gradevolezza sensoriale).
Con i suoi cammini erratici, con i suoi imprevedibili sviluppi proprio la musica “contemporanea” può rappresentare un’iniziale medicina per cercare di recuperare un vero contatto con la realtà.
La frequentazione dei grandi autori del XX (e del XXI) secolo ci consente di riscoprire la bellezza come rischio, come fattore che unifica la realtà senza tagliarne via nemmeno un pezzo (come potremmo ritenere bello qualcosa di vero solo in “certi momenti”?).
Spesso mi capita di scoprire che sto apportando una resistenza alla vera immedesimazione (ovvero a lasciarmi “prendere” interamente) con quello che sto ascoltando. Non importa che sia Bach, Mozart o Schoenberg, il fatto determinante è che io non voglio farmi interpellare da questa musica, ovvero dalla realtà che mi circonda. E allora provo a scappare, saltando da un brano all’altro, cercando “scampo” (anche da Bach o Mozart!) in un libro che abbandono dopo poche righe.
Solo quando accetto la sfida di un’attenzione vera e intera a quel che ho davanti posso iniziare a gustare davvero e a ritrovare una possibile via verso la pienezza. E riscopro la bellezza proprio là dove tutti mi dicono che non la si può trovare, in quella musica “contemporanea” che, rendendo radicali le domande che tutta l’arte pone, mi costringe a guardarla in faccia, a confrontarmi con i suoi percorsi strani ma affascinanti e con quella continua provocazione che mi permette di non adagiarmi in una sorta di “narcolessia dello spirito”.
Per questo è importante ritrovare il gusto del saper ascoltare, che diventa possibile quando accetto la sfida del coinvolgimento di tutte le mie facoltà (immaginazione, ragione, sentimento) con quello che ho davanti, intuendo nella forma di quello che mi viene proposto un’analogia con la realtà.
Certo, tutto questo richiede fatica, come accade in altri ambiti della vita. Forse è questo uno dei modi per sfuggire all’ideologia disumana del gradevole?