Settima puntata della rubrica dedicata alla Musica Contemporanea a cura del M° Luca Belloni. Il compositore Roberto Andreoni si racconta e offre ai lettori l’ascolto di un suo brano, dal titolo Blitz. Buona lettura e buon ascolto!

Caro Maestro, comincio questa nostra conversazione con una domanda che ormai mi sembra quasi un tormentone alla Marzullo (stia tranquillo, non le chiederò se la vita è sogno…): può raccontare ai nostri lettori come sono nati in lei l’interesse e la passione per la musica d’oggi?

Il mio cammino è stato a ritroso, come in quell’ipotesi educativa azzardata da Stravinsky.
Cominciò proprio dall’incontro con quest’ultimo, con un disco da tremila lire allegato a una rivista: Uccello di Fuoco e Sagra della Primavera! Lo riascoltai mille volte (avevo 17 anni, e già suonavo musica pop): ero impaziente di capire, sentire altro, imparare… così mi iscrissi in Conservatorio, dove scoprii Debussy, Bartok, Webern, e poi Verdi, Brahms, Schumann, Beethoven… poi Mozart, Haydn, Bach, Monteverdi, Palestrina, Machaut, il gregoriano, e infine rimbalzare su nuovi, controversi umori per la musica dei miei coevi, fino allo “scontro frontale” che ebbi con il Requiem di Ligeti, ascoltato dal vivo… lì tutto ebbe di nuovo senso, e i conti tornavano: la potenza di fuoco del rock insieme alla coerenza classica, la verve ritmica dell’Africa insieme alla raffinatezza timbrica dell’Europa, l’orologio svizzero insieme alla clava, l’amore e il terrore, il pianto e il perdono, la vita, insomma!

Oggi gran parte del dibattito sulla musica “contemporanea” è incentrato sul problema del linguaggio, ritenuto da alcuni ostico o addirittura incomprensibile (le dissonanze!) e da altri come una sorta di feticcio dal quale non ci si può in nessun modo allontanare (è quello che potrei definire il dramma dell’“accademismo strutturalista”).
In ogni sua declinazione comunque il problema ruota intorno alle scelte del compositore che sembrano inevitabilmente vincolate dallo “spirito dei tempi”. Secondo me il linguaggio utilizzato da un compositore è molto più un dono ricevuto (frutto anche di ciò che si è e si vorrebbe dire) che una scelta maturata dopo lunga e tormentosa riflessione. Lei cosa pensa a riguardo?

Credo che fortunatamente questo scenario da lei descritto sia già superato: l’ossessione per il Linguaggio era più nell’aria una ventina d’anni fa. Le dissonanze sono bellissime tanto quanto le consonanze: non è che il limone sia un frutto meno prezioso perché è aspro, o la rucola sia un’insalata di serie B perché è amara! Certo, statisticamente vince McDonalds perché mette lo zucchero dappertutto, ma lui poveretto fa così perché ha il problema di vendere, e non certo quello di farci scoprire e apprezzare tutti i sapori che ci sono in natura!
La preferenza per il dolce o per l’aspro, il consonante o il dissonante vanno e vengono in una specie di altalena culturale per me del tutto irrilevante, come i capelli: corti nel 500, lunghi nel 600, corti nel 700 (ma con parrucca!…) poi lunghi nell’800 (in odio alle parrucche), poi corti fino al ’68, poi i capelloni, gli skinhead, ecc.!
Fuor di metafore: dopo secoli di accordi maggiori e minori, i musicisti (e anche il pubblico) hanno sentito il cromatismo come liberante; annoiati del cromatismo, hanno poi goduto in un nuovo universo tutto scintillante di taglienti dissonanze, tanto che cinquant’anni più tardi, il modalismo vecchio come il mondo dei minimalisti americani sembrò una riposante “novità linguistica” (che sollievo, in effetti, se mi offrissero un’arancia dopo anni che mangio limoni…!).
Il problema per me non è comunque quello del “materiale” che si utilizza (serramenti in alluminio, legno, o alluminio-color-legno? Fortepiano o Pianoforte?) né di quale sia il “gusto” o la tecnica corrente: tutto ciò, come dice lei, si eredita come un dono dai propri maestri e dal proprio humus, e si aggiorna col tempo. Accanirsi su questo è ottuso, come ottusi erano i compositorucoli galanti che aborrivano Bach per l’“accademismo strutturalista” del suo contrappunto!
La vera sfida, per me, è la ricerca di quella forza, di quella verità innegabile e duratura che misteriosamente si manifesta in tanta (o forse poca) musica di tutte le epoche.

Una certa musicologia contemporanea (assai dura a morire) sostiene che la musica racconti solo se stessa, come se il potere di comunicazione del gesto musicale fosse solo un’incrostazione prodotta dall’ascoltatore. Lei cosa pensa di queste affermazioni? Davvero la musica ha solo il compito di narrare ciò che è senza possibilità di veicolare altro da sè?

Beh, se la musica avesse la capacità di esprimere sinteticamente tutti gli importanti concetti di cui stiamo parlando… non ci sarebbe bisogno di questa intervista! Le manderei un disco con tot minuti di musica capace di rispondere in modo esauriente e comprensibile alle sue domande. Dall’altro lato, se parole e concetti bastassero per esprimere la profondità abissale dell’anima umana e le altezze incommensurabili di Dio, non ci si rivolgerebbe a quest’ultimo cantando e suonando, come si fa in tutte le culture e religioni di tutte le epoche, a qualsiasi latitudine del pianeta! Pregheremmo, per esempio, con le sublimi parole di Dante. Avremmo dei “proclami nazionali” invece degli inni nazionali. E invece vi è un territorio dell’espressività umana nel quale persino la poesia arranca inadeguata, e deve cedere il passo alla musica.
Tornando però a un livello linguistico, è storicamente vero che la musica nel Sette/Ottocento aveva raggiunto una “sicurezza di sé”, una similitudine tale ai livelli morfologici e sintattici del linguaggio da riuscire quasi a veicolare, per analogia, altrettanta trasparenza semantica: narrazioni, valori, esperienze, sentimenti. Oggi invece balbettiamo tutt’al più onomatopee fumettistiche e gergali, tappezziamo il silenzio con “atmosfere emotive” di sottofondo, o collezioniamo istantanee in grado forse di rappresentare brandelli d’esperienza, ma raramente grandi affreschi nei quali tutto un popolo possa identificarsi.
Questo tuttavia è un problema culturale che – con le dovute proporzioni – vale per me come per Michael Jackson: tutta la nostra cultura annaspa nella nebbia! La musica è solo il Re Nudo che meno di altre arti riesce a celare il problema.

Le sue composizioni sono per me una colata rovente di vitalità ritmica e intensità lirica sapientemente fuse e armonizzate. Talvolta, ascoltando alcune sue pagine, mi pare di assistere ad un appassionante “corpo a corpo” tra lei e la materia sonora. Ci può raccontare (per quanto è possibile) come nasce in lei lo spunto per una nuova pagina e come poi giunge alla stesura definitiva?

Ma che belle parole! E infatti spesso noto che la gente si accosta alla mia musica con lo stesso entusiasmo con cui in questo tempo d’estate ci si accosterebbe adun corpo a corpo con una colata rovente!
Vitalità, intensità, fusione, lotta, lirismo hanno effettivamente molto a che vedere con la mia personalità: vede che dunque la musica è in grado anche oggi di veicolare persino aspetti psicologici ed esistenziali? Siccome mi stupisco osservando il “contrappunto” di fattori complessi e stratificati che convivono nella realtà, in ciascun istante, e i nessi che spesso si palesano fra questi fattori apparentemente coesistenti in modo casuale e caotico, di solito è da questo tipo di scintilla che prendono il via i miei pezzi (es: l’“imprendibile” eppur coerente profondità del cielo stellato, gli strati di suono e rumore cittadino nei quali la mia vita è immersa, la complessa drammaticità dei rapporti umani e sociali, del lavoro e del gioco, l’amore/odio per il tempo che passa, l’incontro con ciò che imprevedibilmente fa ridere o piangere, fa vivere o morire…).
Dall’idea iniziale comincio a ingranare meccanismi che mettano in moto questi suoni nel tempo. Mi piace che questo moto obbedisca a proporzioni matematiche o simmetrie nascoste, impercettibili. E mi piace infine sorprendere – durante il viaggio di questi suoni e cioè la partitura in corso d’opera – coincidenze sufficientemente rilevanti da causare “drammi interni”, deviazioni anche definitive di percorso.
Forse l’aspetto più “contro-corrente” della mia sensibilità è proprio il fatto che mi piace la musica in cui accadono degli avvenimenti, in cui succede qualcosa. Ma ciò turba gli andamenti tranquilli, ripetitivi e rassicuranti, e ai più questo non piace, nella musica come nella vita: insomma quando ci si guasta il motore nel mezzo di una terra straniera, o quando si sbaglia strada, l’avventura della vacanza comincia o finisce?… Per l’imprevedibile nascita o morte di qualcuno, per un imprevedibile incontro, la nostra avventura umana finisce o ri-comincia?

Ritengo (la questione è oggi assai controversa) che non esistano compositori né manifestazioni artistiche senza “padri”. Lei cosa ne pensa? E, nel caso, quali sono i suoi “padri” musicali?

Sono totalmente d’accordo con lei! Nessuno si genera né si educa da sé. Gli insegnanti sono i padri che ti vengono dati, ontologicamente memorabili: i padri del mio apprendistato sono stati Donatoni, Manzoni, Gorli, Ferneyhough, e in America Joseph Kerman e Richard Taruskin. Poi ci sono i compagni di viaggio, i padri del proprio pensiero e i punti di riferimento artistici che ciascuno si sceglie per affinità, per significatività di un incontro.
A questo livello miei fratelli maggiori sono Francesconi, Fedele, Boccadoro. I miei innamoramenti adulti sono stati i miracolosi capolavori di Berio, Benjamin, Ligeti, Pekka-Salonen, Takemitsu, Castiglioni, Nancarrow. Ma anche le opere di pittori per come Bacon o Kiefer, scrittori come Luzi, Buzzati, Kafka o Flannery O’Connor, o registi come Von Triers, Spike Lee, Bergman, Fellini, i fratelli Cohen, il pensiero di Giussani e Hannah Aarendt.


Per concludere, come di consueto le chiederei di scegliere uno o più brani dal suo catalogo e di proporli all’ascolto dei nostri lettori introducendoci nel contempo alla loro comprensione.

Blitz per saxofono e pianoforte ha la forma di un video-game: i suoni di partenza hanno come degli “obiettivi militari” da raggiungere, espugnati ciascuno dei quali passeranno progressivamente in ambienti diversi, più complessi, ciascuno con la propria nuova sfida (raggiungere un certo registro, restare in equilibrio su un ritmo instabile, danzare in punta di piedi sulle braci di un solfeggio difficile, armonizzare coerentemente note velocissime, ecc). Soltanto alla fine sax e piano festeggiano con un canto libero la vittoria.


 

Esecutori

Mario Marzi, Saxofono Contralto, Tenore e Baritono.
Paolo Zannini, Pianoforte.