Una delle pagine più belle dell’intera produzione del XX secolo (non solo italiano) è per me il “Concerto dell’Albatro” (per violino, violoncello, pianoforte, orchestra e voce recitante) di Giorgio Federico Ghedini, importante compositore e didatta italiano (fu maestro, tra gli altri di Luciano Berio) nato a Cuneo l’11 agosto 1892 e morto a Nervi il 25 marzo 1965.
Il Concerto, scritto nel 1945, è ispirato a un meraviglioso passo del Moby Dick di Melville in cui si descrive il primo incontro, sulla tolda del Pequod, con un albatro.
Sin dall’inizio del primo movimento (Largo), con la misteriosa melodia affidata agli archi, siamo catapultati in un universo strano eppure familiare, fatto di spazi sconfinati e di silenzi percorsi da una sottile inquietudine: sembra davvero di vedere una minuscola nave immersa nell’immensità dell’oceano. È tutto sovradimensionato sembra dirci l’autore, tutto sfugge alla nostra capacità di possedere la realtà, anche l’enigmatica melodia che tocca tutti i dodici i suoni della scala cromatica.
L’ingresso del pianoforte [0.30] che riprende la melodia degli archi seguito dal violino [1.03] sembra mimare il risveglio della coscienza dell’uomo davanti all’incredibile maestà della natura. Il trio solista (violino, violoncello e pianoforte) si muove percorrendo la linea dell’orizzonte prima in parziale sintonia con gli archi e quindi discostandosene sempre più fino a che [2.31] l’orchestra inizia, quasi impercettibilmente, un nuovo breve episodio segnato da accordi più densi. La tessitura del trio solista si fa sempre più acuta e tesa [2.48], come se il “protagonista” cominciasse ad affermare un proprio dolente “punto di vista” singolarmente affascinato e contemporaneamente insoddisfatto dall’infinito blu dell’oceano. Anche il più maestoso degli spettacoli naturali non può saziare quella inesauribile sete di infinito, di illimitato, di incomprensibile che ferisce da sempre il cuore dell’uomo: così l’erratico vagare dei solisti, impregnato di profonda malinconia, sembra cercare “in alto” uno sbocco all’ impossibile anelito che, anche se ancora confusamente percepito, non può essere soppresso. Nel mistero di alcune “onde” di suono [5.10] commentate da eterei arpeggi del pianoforte si estingue la prima parte del brano. Tutte le domande restano aperte nella desolata immensità marina.
Senza interruzione attacca il successivo Andante un poco mosso [5.54] che si apre con un tenebroso disegno degli archi gravi cui si aggiunge l’oscura perorazione del pianoforte. Immediatamente l’atmosfera si fa tesa e quasi tempestosa [6.09] e un possente tema si staglia sulle frastagliate figurazioni dell’orchestra: le misteriose “onde” del primo movimento diventano qui lo specchio delle inquietudini del protagonista che sembra vagare incessantemente alla ricerca di una risposta. Il medesimo atteggiamento musicale viene ripreso da violino e violoncello solisti [6.40] che conferiscono una ancor maggiore intensità lirica al movimento. Il desiderio è qui divenuto febbre che consuma il cuore: nel prolungarsi dell’attesa si intuisce forse l’irraggiungibilità dell’oggetto cui si tende?
Il confuso, sordo brontolio delle percussioni che conclude il movimento [8.15] sembra infine mimare lo sconforto e la sconfitta di chi vorrebbe raggiungere con le sue sole forze (ma senza conoscere la via) il misterioso termine della sua inesausta brama.
Il terzo movimento (Andante sostenuto) ci immette in un clima complementare a quello dei due tempi precedenti: una stanchezza indicibile si stende sull’orizzonte e nell’animo, con la scarna melodia del pianoforte che tenta di elevarsi sul frantumato panorama disegnato dal pizzicato degli archi. L’ingresso del violino [1.57] sottolinea con pregnanza ancor maggiore la desolata situazione esistenziale: se un significato non c’è perché l’uomo non può esimersi dal tendere a questo impossibile obiettivo? Il ritorno dell’implacabile ticchettio degli archi (saremmo tentati di immaginarlo come controparte musicale della insonne notte del capitano Achab che percorre il ponte della nave facendo risuonare le assi con la sua gamba di osso di balena) che conclude la pagina accompagnato dal sommesso rullo del timpano pare distendersi come una sorta di richiamo alla realtà che si erge, apparentemente muta, di fronte al tormentato protagonista del brano.
Nel quarto movimento (Allegro vivace) fin dall’esordio incontriamo una ulteriore variante di quella figura dell’”onda” già più volte apparsa. È un inizio in perpetuo movimento ascendente, una vera, lunga e minacciosa increspatura oceanica nella quale si incuneano temi scolpiti [0.54 e 1.24] che sembrano indicare una frenetica agitazione (ancora una volta saremmo tentati di rintracciare qui un parallelo con l’avventurosa caccia alla balena di cui parla Melville). È come se Ghedini indicasse nell’azione una possibile via d’uscita dall’impasse esistenziale. Il serrato tessuto polifonico [1.51] che coinvolge orchestra e solisti nella sua costante inquietudine, sfocia in un passaggio aspro e dal vago sapore epico [2.31] che, dopo una breve citazione dell’inizio del movimento, ci introduce [2.49] in un nuovo episodio che varia ancora una volta l’idea dell’”onda” in un crescendo di intensità dinamica e di tensione espressiva. È una sorta di continua sollecitazione che conosce momenti di esaltazione quasi primordiale (i colpi selvaggi delle percussioni!). Questo sommovimento cosmico si acquieta in un imprevisto corale di legni ed ottoni che, incuneatosi nel tumulto orchestrale [4.27], ci conduce ad un’atmosfera radicalmente differente: anche l’inesausta agitazione non ha portato la risposta attesa. Subito dopo, un etereo arpeggio del pianoforte [5.32] ed un accordo degli archi fungono da sfondo al sublime e nobilissimo ingresso della voce recitante: “Ricordo il primo albatro che vidi…”.
La presenza della voce umana, della parola, segnano uno stacco decisivo nell’intero percorso della composizione.
Così il quinto e conclusivo movimento (Andante) si apre su una scena completamente rinnovata. La pacata melodia del violoncello e le entrate in imitazione degli altri strumenti (trombone, pianoforte, flauto, violino) tratteggiano un nuovo panorama sonoro che, pur non escludendo il tormento degli episodi precedenti, sembra interamente assorbito nella contemplazione dell’albatro, elemento nuovo ed imprevisto che irrompe della monotona realtà della navigazione.
Il successivo intervento della voce recitante [2.17] che descrive l’incontro con il “re dei cieli” sollecita il trascolorare della musica verso zone più rarefatte ed eteree. La “soprannaturale disperazione” dell’albatro apre un nuovo, intenso episodio [3.22] in cui la musica accoglie e si fa eco ed immagine della parola, illuminandone i più reconditi significati.
A partire dal dettato narrativo di Melville, Ghedini rende evidente, attraverso un sapiente gioco di rimemorazione musicale, il significato dei movimenti precedenti. Allora la ricomparsa del tema iniziale del Largo (l’ampio e misterioso motivo “dell’oceano”) [4.05] che segue immediatamente la descrizione degli enigmatici occhi dell’albatro (i cui segreti giungono “fino a Dio”) ci permette di dare un nome all’immensità conturbante dell’esordio, ora evidente metafora dell’indicibile maestà divina.
La sottile filigrana sonora dipanata dagli strumenti nel registro acuto funge quindi da controparte alla natura angelica che Ismaele (la voce narrante del romanzo) riscontra con reverenza nell’uccello marino [4.45] mentre l’abbandono di ogni distrazione mondana porta ad una ulteriore rarefazione della sonorità [5.17] sempre più chiara e trasparente. I misteriosi trilli degli archi ed il progressivo sfaldamento della materia musicale [5.43] introducono il sublime finale (pagina di indescrivibile bellezza) in cui la pace è finalmente raggiunta nella contemplazione del messaggero alato che ritorna alla sua patria (“tra i cherubini”) portando con sé l’anima rapita di Ismaele che, attraverso questo incredibile incontro, ha finalmente compreso quale sia la sua vera “casa”, quell’infinito cielo dove può venir finalmente compiuta l’attesa inesauribile del cuore. Così gli ultimi disincarnati rintocchi del finale [7.41] descrivono meglio di ogni parola quel definitivo destino di bellezza e libertà cui ognuno, pur nei tortuosi sentieri della quotidianità, si sente inesplicabilmente chiamato.
Anche così, oggi come in ogni altra epoca, la musica può essere testimone di quella verità che rende ogni istante pieno di significato e degno di essere vissuto.