Figlia e testimone della tragica epopea della Russia Sovietica Galina Ivanovna Ustvolskaya (1919-2006) è per me uno dei creatori più importanti e profondi del XX secolo.
La sua parabola esistenziale potrebbe riassumersi in un semplice dato biografico: nata a Pietrogrado e vissuta per quasi tutta la vita a Leningrado, la compositrice muore a S. Pietroburgo.  La triplice denominazione del medesimo luogo è emblematica di una prigionia (la Ustvolskaya non si mosse dalla sua città natale per buona parte della vita) e nel contempo di uno sradicamento che la rende nostra sorella nella ricerca di quella “pietra angolare” su cui unicamente è possibile costruire stabili dimore.

Oggi vogliamo parlare della Sinfonia n. 5 “Amen”, l’ultima delle 25 composizioni che costituiscono l’esile e qualitativamente strabiliante catalogo dell’autrice.
Composta nel 1989/90 la pagina prevede un organico ridottissimo, cinque soli strumenti (oboe, violino, tromba, tuba e percussione costituita da un cubo in legno) cui va aggiunta una voce recitante maschile che pronuncia in tono solenne e accorato il testo del “Padre nostro”.

Fin dal principio (I – 0’04”) un profondo abisso si apre dinnanzi ai nostri occhi. Pochi tocchi della percussione lignea e una nota grave del tuba fungono da introduzione all’esile suono dell’oboe (I – 0’14”) che pronuncia la sua frase in un clima rarefatto.  Una voce composta sembra levarsi lentamente sopra gli insondabili misteri dello spazio e del tempo interrogandosi sul suo stesso essere qui, ora.
L’atmosfera è rituale e ieratica, il pensiero non può fare a meno di correre alla solenne bellezza e alla soprannaturale compostezza di certe icone.

L’ingresso della tromba (I-0’40”) con la sua costante punteggiatura costituisce un breve preludio all’intervento dell’attore che articola le prime parole del Padre nostro.
Poco dopo (I – 0’56”) la lenta e severa processione musicale si arricchisce dell’ultima “voce” che ancora mancava all’appello, quella del violino con il suo caratteristico disegno.
Nella spoglia trama musicale si incunea una improvvisa triplice perorazione accordale (I – 2’42”) che, grazie anche al nervoso tremolo delle percussioni, ci introduce a un cambio di tempo (I – 2’56”).  E’ una figura che ritroveremo spesso utilizzata come “cerniera” tra le differenti zone della composizione e che porta, quasi naturalmente, il nostro pensiero ai tre ospiti angelici di Abramo raffigurati con magistero inarrivabile da Andrej Rublëv.

Il tessuto musicale è talmente essenziale che una minima variazione ottiene un risultato eclatante. Così la semplice introduzione di un trillo della tromba, unito alla costante invocazione del recitante (fissa sulle prima parole della preghiera: “Otche nash” – Padre nostro) e al tremolo delle percussioni, introduce un profondo sconvolgimento: la terra sembra franare sotto i nostri piedi e la “tremenda maestà” dell’Interpellato si mostra come incolmabile divario tra Creatore e creatura.

E’ proprio questo il fuoco, il fulcro poetico dell’intera Sinfonia.  La Ustvolskaya si (e ci) interroga sulla condizione dell’uomo come “fatto-da” come essere ultimamente e intimamente dipendente da altro da sé.  L’oggettività di tutta la prima parte del discorso musicale si configura dunque come una visione della realtà nella sua tetragona resistenza a ogni nostro tentativo di possesso. Più l’uomo tenta di erigersi a “padrone” del mondo più questo gli ricorda (e i tragici fatti di questi giorni ne sono conferma incontestabile) che questa menzogna è appesa al sottile filo di quella che l’orgoglio dipinge come una sorta di cieca Fortuna.

Il dualismo tra principio “oggettivo” e percezione della incommensurabilità tra l’uomo e Dio prosegue mostrandoci che, ultimamente, il sostrato della realtà è dialogo, rapporto, comunicazione o tentativo (desiderio) di un legame tra l’effimero momento presente e il significato complessivo del cosmo.

 

Parte I

 

 

 “Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita” recita una grande preghiera di San Gregorio Nazanzieno.  In fondo tutto l’andamento del brano è una lenta e inesorabile scoperta di questa drammatica (ed esaltante a un tempo) alternativa.  

 

Così dopo l’ennesima ripresa dell’episodio iniziale (II – 0’00”) gli elementi essenziali del brano sembrano sottoposti a un processo di progressiva e inesorabile trasformazione.
Il tuba (fino ad ora sostanzialmente utilizzato come sostegno nel registro grave) diviene (II – 1’39”) strumento melodico mentre la intensa voce dell’oboe si blocca su un’unica tremante figura.
Anche la voce del violino viene isolata e, per pochi vertiginosi istanti (II – 2’25”), rimane nuda, sospesa, senza respiro.
Due successivi interventi “esplosivi” della sola percussione (II – 3’05” e 3’36”) rendono ancor più evidente il capovolgimento in atto.

E’ come se dalla superficie (dalla percezione di un deus absconditus) si penetrasse più profondamente nel cuore delle cose e del testo) per scoprirvi il desiderio ardente di Qualcuno che diventi compagno alla quotidiana fatica di vivere.
E allora anche l’invocazione al Padre (ripetuta drammaticamente a II – 3’49”) comincia a diventare l’alba di una nuova familiarità e nella domanda si apre l’attesa e con essa il principio della speranza.

Così anche il finale (II – 5’25”), sempre più spoglio, affidato alla sola percussione fa cantare il silenzio che, lungi dall’essere “vuoto” di suono, diventa impronta della pienezza desiderata, del volto di cui si cominciano a intravedere i lineamenti.
Nella sua petrosa semplicità, nel suo ieratico incedere e nella sua apparente povertà espressiva (meglio si direbbe essenzialità) questa estrema pagina della compositrice russa testimonia di una fede profondamente radicata nella sofferenza e nel lutto ma, proprio per questo, consapevole dell’ineliminabile anelito dell’uomo a una felicità che nessun dolore potrà definitivamente spezzare.

Anche per questo dobbiamo essere grati a questa donna che, portando per 45 anni il peso dell’indifferenza e dell’ostilità dell’intero mondo musicale, ha saputo donarci pagine vergate con la profonda severità e la totale partecipazione dell’iconografo che, in ogni dettaglio, sa scorgere l’impronta di quel Mistero da cui veniamo e da cui, da sempre, siamo amati ed attesi.

 

Parte II

Interpreti:
Oleg Malov e i Solisti di S.Pietroburgo