Uno scabro paesaggio, un orizzonte desolato tracciato dalle spoglie linee di flauto e clarinetto. Così, in un clima di composto cordoglio, inizia il meraviglioso Stabat Mater del polacco Karol Szymanowski (1882 – 1937), opera che può a buon diritto venir collocata tra le vette più alte della musica sacra del XX secolo.

Composta su commissione della contessa De Polignac (grande mecenate della prima metà del secolo scorso) la pagina subisce un radicale mutamento di segno quando, improvvisamente, muore Alusia Bartoszewiczówna, figlia amatissima della sorella del compositore.

L’idea di uno Stabat Mater (originariamente Szymanowski pensava a un Requiem) nasce dunque dall’esperienza dolorosamente vissuta di una madre che deve accogliere tra le braccia le spoglie di un figlio. Come Maria sul Calvario.

Proprio da qui, dal vuoto, dall’assenza, dal dolore apparentemente senza possibilità di remissione prende le mosse lo scarno duetto strumentale (spoglio come il Golgotha, il monte detto “del Cranio”) che apre la composizione [I – 0’05”] (“Stala Matka bolejaca” – “Stabat mater dolorosa”). La tenera linea dell’oboe aggiunge cordoglio a cordoglio [I – 0’30”] ed è solo dopo l’ingresso degli archi e l’allargamento dell’angolo prospettico [0’37”] che la nostra attenzione si può focalizzare sulla protagonista della scena: Maria sotto la Croce.

Un nudo assolo del soprano [I – 1’33”] ci narra il dolore della Madre che appare quasi fisicamente sorretta (come in celebri raffigurazioni pittoriche della Passione) dalle voci femminili del coro. Improvvisamente l’atmosfera si fa più cupa [I – 4’01”] mentre coro e solista intonano “O, jak smutna, jak podcieta” (“O quam tristis et afflicta”). L’ultima terzina di questa prima parte (“O, jak drzala I truchlala,” – “Quae maerebat et dolebat”) [I – 5’25”] si dispiega nuovamente sulle note e nell’atmosfera dell’esordio fino alla triste ed oscura conclusione in cui il clarinetto [I – 6’48”] ci conduce nelle tenebre che avvolgono il mondo durante la crocifissione di Cristo.

Il secondo numero della partitura [I – 7’32”] (“I któz widzial tak cierpiaca” – “Quis est homo qui non fleret”) si apre con sonorità livide e allucinate. È una visione quasi cosmica del pianto che con un lentissimo e travolgente crescendo, ci porta al culmine del dramma, alla morte salvifica di Cristo, il Giusto che, come recita il testo polacco, ha sofferto “per i peccati di ogni nazione”.

La visione di Szymanowski si discosta qui da quella comune a molti altri brani, anche sublimi (si pensi solo al “Vidit suum dulcem natum” dello Stabat Mater di Pergolesi). La morte del Figlio di Dio, sembra dirci il musicista polacco, è l’apice drammatico dell’intera storia umana, è un avvenimento che coinvolge cielo e terra, microcosmo e macrocosmo. Nella musica infatti tutto sembra davvero spasimare “nelle doglie del parto” come dice l’Apostolo.

Ancora il dolore è il protagonista dell’intenso incipit del terzo numero [II – 0’05”] (“O Matko Zródlo Wszechmilosci”  – “Eia, Mater, fons amoris”), pagina in cui il contralto dialoga con una seconda voce strumentale, simbolo evidente della Madre cui si rivolge. Tutto qui è accorata domanda e desiderio ardente di condividere le pene di Maria.
Szymanowsky però, con tratto di grande delicatezza, circonfonde tutto di dolce compassione, quasi temendo di acuire le sofferenze dell’Addolorata con una musica troppo enfatica.
Ogni domanda è dunque quasi sussurrata senza per questo perdere di pregnanza o intensità. Come insegnava Santa Teresina di Lisieux, a Dio posso domandare tutto anche con uno sguardo senza parole.

Il successivo quarto movimento (“Spraw niech placze z Toba razem” – “Fac me tecum pie flere”) [II – 4’19”] è affidato alla sola compagine corale con l’aggiunta del soprano solista e senza alcun intervento strumentale.
L’umanità intera (e ogni singolo individuo) confessa qui di avere come desiderio ardente quello di condividere il pianto della Madre ed il dolore del Figlio. È la scoperta, in cui albeggia la luce della speranza, del valore salvifico della sofferenza.
Ora che Dio stesso si è immerso totalmente nel dolore, sembra dirci l’Autore, ogni perdita ed ogni pena può venir trasfigurata ed unita alla Sua Passione e così rendere possibile quella “spes contra spem” che è uno dei cardini del Fatto cristiano. 

 

 


Un potente disegno dei bassi dà il via al quinto movimento [III – 0’06”] (“Panno slodka racz mozolem” – “Virgo virginum preclara”) in cui la stentorea linea affidata al baritono esprime con chiarezza la domanda di partecipare ai patimenti di Cristo, visti nel contempo come pesante fardello (è continua la presenza di ostinati musicali) e sorgente di gloria imperitura (vedi il grandioso crescendo che conclude la pagina).

Col dolcissimo sesto movimento (“Chrystus niech mi bedzie grodem” – “Christe, cum sit hinc exire”) [III – 3’36”] siamo all’epilogo. Una semplice e intensa melodia, evidentemente ispirata al folklore polacco (una delle fonti cui il compositore dichiaratamente si rifà) ci trasporta in un’atmosfera interamente pervasa dalla Grazia.

In particolare una breve, meravigliosa frase musicale [III – 3’48”/3’55” poi 4’04”/4’11” ecc.] riesce a fondere dolore e consolazione, timore e speranza, morte e risurrezione. Il finale, in cui i tre solisti si uniscono al coro, [III – 6’46”] è una lenta, sublime ascesa verso la Pace e la Luce.

 

La morte non è l’ultima parola sull’esistenza umana, ci dice Szymanowski, è la porta stretta dai cui cardini già trapela il chiarore ultraterreno e umanissimo della Salvezza.

Nulla andrà perduto, né lacrima né sorriso, nell’estasi finale di quell’amore che, come ci insegna Jacopone da Todi (cui viene attribuito anche il testo dello Stabat Mater) “omne cosa conclama”.
Anche oggi dunque, nel giorno del dolore, possiamo esclamare con San Paolo: “O morte, dov’è la tua vittoria?”.


  

Zofia Kilanowicz, soprano
Jadwiga Rappé, contralto
Wojtek Drabowicz, baritono 

Nikikai Chorus Group En-Aichi-Kay Symphony Orchestra 
Charles Dutoit, direttore