Talvolta l’uomo si accorge di vivere di attesa. Attesa che si realizzi quel progetto, attesa che arrivi quel giorno, attesa che accada questa o quella cosa…Tutto sembra sempre proiettato in un futuro in cui dimorano tutte le nostre speranza, tutti i nostri desideri. E l’istante presente? Quello che vivo ora? Dov’è il suo valore? Tutte queste domande sembrano affollarsi in una delle pagine più belle della musica del XX secolo, i Cinque movimenti op. 5 (1909) del compositore austriaco Anton Webern (1883-1945).
Figli della prima, incandescente stagione creativa weberniana, questi brevi brani contengono un intero repertorio di veri e propri gioielli musicali (non a caso, molti anni dopo, Stravinsky definì Webern “artefice di gemme preziose”). La caratteristica principale della raccolta è l’incredibile concentrazione di eventi espressivi e musicali in uno spazio temporale ristretto. Questa compressione di contenuti vastissimi in pochi secondi (Schönberg, a proposito delle Bagatelle op. 9 dello stesso Webern, ebbe a dire che si trattava di “un romanzo in un sospiro”) ci costringe dunque a un’attenzione continua e a un esercizio costante di ridefinizione di quelle certezze sulle quali siamo soliti costruire il precario edificio delle nostre giornate.
Così il folgorante inizio del primo numero [0’01”] con la sua inquieta agitazione e il suo repentino invito [0’08”] a un altro e più profondo atteggiamento [0’14”] è uno specchio davvero impietoso del rapporto, spesso disgregato, tra uomo e mondo.
L’episodio più calmo che segue [0’18”], con il suo movimento ostinato al violoncello e l’intensa melodia [0’22”] dei due violini, sembra invece scavare nelle profondità dell’anima. Il silenzio appena conquistato viene di nuovo immediatamente cancellato da una nuova, ansiosa ondata [0’38”] in cui vengono soffocati [0’45” e 0’53”] gli ultimi echi della sezione precedente.
In questo gioco di alternanze tra tensione spasmodica e intima riflessione si inserisce il più lento [1’11”] in cui la pensosa linea del violino I e l’espressiva risposta dei due archi gravi [1’35”] sembrano aver trovato finalmente terreno fertile. L’imprevisto, la contraddizione è però sempre in agguato e, ancora una volta, si incunea nel discorso [1’50”] riportandolo a livelli di tensione quasi insostenibile [ 2’01”].
La coda [2’11”] è tutta giocata sull’incessante riproposizione dell’anelante disegno di apertura (violino I) che progressivamente perde (quasi per esaurimento delle forze) il suo carattere di appello accorato e si spegne con un ultimo sussulto [2’20”] in un pizzicato quasi inaudibile. Il secondo movimento [2’28”] rinuncia alle lacerazioni dell’episodio precedente per concentrarsi interamente sulla riflessione e sulla contemplazione.
La dolcissima melodia della viola è punteggiata da pochi, intensi accordi e da sparsi ritorni [3’17” e 3’30”] di quell’”appello” che abbiamo già incontrato nel numero precedente. Il brano di propone un’intensa meditazione sull’uomo e sulla sete di vita e di bellezza che lo contraddistinguono, ma anche sulla profonda insoddisfazione che lo coglie quando la realtà non sembra rispondere positivamente ai suoi desideri.
Emblematico è in questo senso il duetto tra i due violini [3’39”] in cui alla poetica melodia della voce superiore si contrappone l’ostinato alternarsi di due sole note. Desiderio e sua negazione dunque convivono, mirabilmente rinchiusi in una sola parabola musicale. Con la baldanza minacciosa di una marcia si apre invece il terzo movimento [4’52”], interamente pervaso da paurose fratture ed inquietanti sussulti. Nulla pare destinato ad essere concluso, ogni frase diviene moncone, balbettio, in un caleidoscopio di situazioni che non approdano mai alla pace. Così anche gli sparsi frammenti di melodia [5’04”] sono violentemente tacitati dal costante ritorno di figure ossessive [5’18” e 5’22”].
L’unica soluzione possibile, in un mondo dominato da tale proditorio spirito di sopraffazione, è l’omologazione che, nelle ultime due misure, porta i quattro strumenti ad eseguire la stessa linea. Un sonoro, violento pizzicato (in triplice sforzato!) suggella un brano in cui domina lo spirito distruttivo che inevitabilmente nasce dalla frustrazione della personalità umana.
Un fremito apre il successivo Sehr langsam (Molto lento) [5’34”] che sembra mettere a teme la disastrosa condizione appena incontrata. È un brano di grande suggestione in cui un lirico episodio interamente costruito su un disegno discendente [5’47”] risponde, quasi emblema di una speranza che non può essere completamente azzerata, la triplice enunciazione di un arpeggio ascendente [6’17” – 6’47” – 7’11”].
In perfetta consonanza con la domanda di fondo del pezzo (che significato ha l’istante presente?) la sezione centrale [6’25”] ci propone poi l’incessante, meccanica processione dei secondi raffigurata negli ossessivi pizzicati della viola.
Tradizionalmente l’ultimo movimento di una composizione (come del resto l’atto finale della vita) ha il compito di definire il significato di tutto quanto lo ha preceduto.
Webern qui non eccepisce a questa regola e affida alle espressive volute del quinto brano il compito di chiarire (se possibile) le molte questioni lasciate aperte. Fin dal solitario esordio del violoncello [7’16] una cupa mestizia sembra gravare sull’animo.
La scintillante punteggiatura accordale [7’28”] rischiara di poco la scena e così pure l’elegiaca melodia del violino [7’45”]. Improvviso, un oscuro tormento appare [8’26”] denunciando l’impossibilità di rinchiudere nel cerchio del pianto e del lamento la domanda di significato.
L’alternanza tra elegia e tormento si fa più serrata [8’43” – 8’52”] fino a che l’ultima ripresa del motivo iniziale, dopo un sussulto presto estinto [9’38”] lascia il posto a due “personaggi” musicali che riprendono gli elementi portanti del quarto movimento: il composto lamento della linea discendente [già incontrato a 5’47”] e il sussurro ascendente della speranza [cfr. 6’17” e simili].
Dunque, ci dice Webern, l’uomo sembra fatto in modo da non poter non sperare, anche contro ogni speranza. Se il pianto sulla propria infelice condizione è un atto di sincerità, lo è ugualmente il riconoscimento dell’ineluttabile presenza di un principio di luce in cui, se non il senso completo, si può almeno dischiudere l’attesa di una possibile risposta alle tante domande che costituiscono la parte più preziosa dell’esistenza.
A partire da questo, anche la timida melodia del violino che chiude l’intera composizione [10’17”] rimane sospesa nell’atto di scrutare l’orizzonte misterioso da cui si spera possa provenire una risposta che doni, finalmente, la pace..
Alla fine, come ci insegna Lagerkvist, all’uomo che cerca davvero rimane, sola risorsa, l’inesausto domandare: “Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? Che colmi tutta la terra della tua assenza?”.