Ci sono autori che dialogano a distanza, in un gioco di influenze reciproche che, come insegna magistralmente Borges negli (pseudo) saggi di Otras Inquisiciones, possono talvolta assumere il paradossale volto di una creazione retrospettiva di “predecessori”.

Nella pagina che vogliamo scandagliare oggi, Ligatura – Message-Hommage à Frances-Marie (The Answered Unanswered Question), Kurtág interloquisce con Charles Ives (1874-1954), autore del celebre brano The unansweresd question (La domanda senza risposta), cui il titolo allude esplicitamente.

Ora, quella cui entrambi i musicisti fanno riferimento è, come spiega lo stesso Ives, proprio la domanda ultima, quella sul senso dell’essere, sul motivo per cui esiste tutto ciò che c’è.
Ives però lascia aperta tale domanda mentre Kurtág sembra portarla alle estreme conseguenze.

In effetti, come si può rispondere a una domanda senza risposta? L’inizio del brano del compositore ungherese (affidato al prodigioso violoncello di Frances-Marie Uitti, la dedicataria della pagina, artista che ha sviluppato una tecnica dell’arco che le permette di eseguire costantemente accordi a quattro parti) è un “paesaggio cosmico” [0’04”] in cui lenti, rotondi accordi sembrano disegnare i misteriosi contorni di un’imperturbabile volta stellata.

La profonda, variegata oscurità del tessuto sonoro è ottenuta con mezzi semplici ed efficacissimi. La maggior parte degli accordi di questa prima parte è infatti costituita da una triade cui viene aggiunta una nota estranea. La “naturale” armonia tonale supera se stessa venendo enfatizzata dalla dissonanza in un gioco dialettico in cui si perde il senso della polarizzazione in favore di una percezione “allargata” della triade come entità accordale senza più riferimenti a una precisa scala.

Dunque il punto di partenza è una sorta di mutamento di prospettiva che il compositore richiede all’ascoltatore. Le ampie arcate dell’esordio sono il corrispettivo musicale dell’incessante movimento cosmico che, pur nella sua costante, diuturna attività, appare misteriosamente immobile.

Lo sguardo agli spazi interstellari ci apre dunque un mondo smisurato, familiare (le triadi!) e nel contempo colmo di enigmatico mistero. L’ingresso dei due violini [ 1’03”] (che devono eseguire la loro parte in maniera ritmicamente indipendentemente dal violoncello) impone un’ulteriore tappa all’affascinante cammino appena intrapreso. 

 

Quello di Kurtág è un universo in cui la pluralità delle dimensioni spazio-temporali, con i suoi paradossi, pone domande sempre più complesse e radicali. Di fatto è come se l’autore ci ponesse davanti a una molteplicità di strati intercomunicanti (gli accordi dei due violini sono quelli iniziali del violoncello trasposti), ma distinti. Come a dire: il tempo degli orologi non è quello dell’animo umano, la misurabilità dell’ora essendo incommensurabile con l’eternità che non conosce prima né poi.

L’algido monologo del violoncello riprende come all’inizio [1’51”] questa volta con la sovrapposizione esplicita dell’“altro mondo” rappresentato dai due violini [2’34”]. Il fascino che promana da questa enigmatica processione stellare è a un tempo attraente e inquietante.

L’abisso senza fondo degli spazi cosmici (lo stesso che accende la ridda di domande del pastore errante leopardiano) sembra essere refrattario a qualsiasi familiarità con l’uomo che, in tale immensità, sembra smarrirsi. Ma, come diceva il buon Giacomo: «A che tante facelle?/ […] Ed io che sono?». Qual è il senso di questo “infinito seren” e della vita umana?

L’atteggiamento di Kurtág, laconico ai limiti dell’afasia, non elimina anzi, enfatizza la domanda ultima che però, come dicevamo, è sentita come domanda che ha una risposta impossibile.
In effetti il compositore ci dice quello che al fondo già tutti sappiamo: non di una risposta teorica abbiamo bisogno, ma di qualcosa che diventi carne della nostra carne. In tal senso la conduzione del brano è geniale perché l’assoluta, raggelante mancanza di movimento in questo lento corteo di accordi, rende l’atmosfera davvero gravida di attesa.

Risuona l’ultima nota del violoncello [3’10”] e la partita sembra chiudersi con la vittoria dell’enigma, dell’incertezza, dell’apparente indifferenza cosmica quando, con gesto semplice e liberante, l’autore dispone in partitura il primo (e unico) intervento della celesta [3’17”] che suggella, con i suoi tre accordi, un’apertura timida, ma reale, quasi un barlume di Grazia che illumina la tenebra apparentemente invincibile.

Così, con questo estremo gesto carico di attesa e di una (embrionale) speranza, Kurtág ribadisce la sua fiducia ultima nella possibilità di venire raggiunti dal Senso dell’universo (concepito qui come misteriosa entità) e di parteciparvi dunque in un abbraccio (ecco la risposta non teorica) che ci liberi dalla paura dell’assurdo (questo è ultimamente il grande peccato per l’Autore) in un abbandono a quella luce che, pur percepita per un breve istante, può brillare come fiaccola inestinguibile nel cuore di chi davvero è aperto ad accoglierla.