Riprendendo il filo interrotto delle riflessioni sul rapporto tra Pavel Florenskij e la musica (vedi il precedente articolo) soffermiamo ora la nostra attenzione su un grandissimo autore del XX secolo: Igor Stravinsky (1883-1971).

Il punto da cui prendiamo le mosse è un’affermazione di Florenskij a proposito del rapporto con la tradizione (il pensatore sta parlando qui della pittura di Icone): “Salendo all’altezza raggiunta dall’umanità, la forma canonica libera l’energia creativa dell’artista verso nuovi raggiungimenti e slanci creativi, nonché dalla necessità di ripetere nella creazione cose vecchie: l’esigenza di una forma canonica o più precisamente il dono della forma canonica che l’umanità fa all’artista è una liberazione e non una limitazione. L’artista che immagina per ignoranza di poter creare qualcosa di grande senza la forma canonica è simile a un viandante che, pensando di essere ostacolato dalla durezza del terreno, presume di poter fare più strada stando sospeso in aria piuttosto che camminando sulla terra. […] tale artista, rifiutata la forma assoluta, si attacca inconsciamente ai brandelli e ai frammenti di altre forme, che sono però casuali e imperfette, e a queste reminiscenze inconsce attribuisce l’epiteto di “creazione artistica”. Il vero artista invece […] vuole […] l’oggettivamente bello, cioè la verità delle cose incarnata artisticamente”

È evidente l’assoluta assonanza con la celebre, icastica affermazione di Stravinsky per cui “tutto ciò che non è tradizione è plagio”.

Per verificare sul campo, com’è nostra consuetudine, queste impegnative asserzioni utilizzeremo una pagina stravinskiana apparentemente minore ma, proprio grazie alla sua assoluta linearità e semplicità, ideale per introdurci alle questioni ora sollevate. Si tratta delle Otto miniature per gruppo strumentale, brano che nasce dalla strumentazione/riscrittura di brevi e semplici pezzi pianistici: Le cinque dita – otto pezzi molto facili su cinque note del 1921.

Ma come si misura questo mazzetto di fragranti pagine del compositore russo con le altisonanti, impegnative affermazioni sul significato dell’arte musicale?

 

 

Innanzitutto la parola che ci può aiutare in questo cammino di comprensione è tradizione. Cosa intendiamo con questo terminE assai usato (e abusato) in sede estetica e non solo?

 

Tradizione è, per dirla con Florenskij, il rifarsi creativamente a una verità oggettiva e condivisa. La tradizione dunque implica una visione del mondo e, in definitiva, un’ontologia. Comprendiamo dunque un po’ meglio l’affermazione del grande pensatore russo che dichiarava di non amare la musica priva di ontologia (ovvero priva dello “splendore del vero”).

 

Ma in musica come possiamo tradurre queste affermazioni? Sinteticamente potremmo dire che ontologia in musica indica quel processo per cui l’artista prende le mosse da uno stato di cose reale (un dato) e non da un proprio sentimento sul medesimo stato di cose (come in certo espressionismo) né da una costruzione intellettuale basata su proprie acute, affascinanti ma tutto sommato velleitarie speculazioni (si pensi a certo strutturalismo o post-strutturalismo anche contemporaneo).

 

In Stravinsky questo si traduce in una consapevolezza del dato preesistente (la tradizione russa o occidentale) col quale si confronta, consapevole, nel contempo, della propria individualità e del proprio temperamento secondo il particolare accento che, ancora una volta, si ritrova addosso (si tratta di fatto di un altro dato).

 

Nella fattispecie del brano che proponiamo (le otto miniature) tutto questo si traduce in una molteplicità di segnali ed elementi che intessono una rete di rimandi a forme del passato senza mai diventare mera imitazione e senza scadere in un manierismo privo di vita.

 

L’esordio [Andante – 0’03”] è interamente posto sotto il segno dell’infantile purezza (elemento che costituisce, pascolianamente, il fil rouge dell’intera composizione, originariamente destinata ai fanciulli) senza però mai accondiscendere a quel mieloso infantilismo che infesta tanta letteratura destinata ai più piccoli. Si tratta di una dolce e cullante nenia (sorta di berceuse sui generis) che sembra aiutarci a ritrovare quella limpidezza di sguardo che, sola, può ridare al mondo il suo reale splendore. La semplicità dell’assunto musicale (il compositore si costringe ad utilizzare solo cinque note in ogni pezzo per costruire la linea melodica) favorisce l’essenzializzazione della struttura e quindi della comunicazione.

La (apparente) povertà dell’icona, dice Florenskij, e la sua fedeltà al reale integrale (cielo e terra uniti) la rendono porta per la comprensione del mondo in ogni sua sfaccettatura (fisica e dunque metafisica). Qui Stravinsky fa la stessa cosa con mezzi appena differenti.

 

 

 

Lo zampillante secondo movimento [Vivace – 0’58”] si distende su un incessante ritmo quasi di saltarello o di tarantella. È una sorta di (piccola) “apoteosi del gioco”, un abbandono libero e totale all’attraente bellezza di tutto ciò che esiste. Nel gioco, al fondo, ci dice il compositore anche la monotonia (la melodia e l’accompagnamento sono per larghi tratti quasi bloccati sulle medesime figurazioni) è superata perché ogni istante è diverso dal precedente e con lo sguardo attento e curioso in ogni sfumatura della vita è possibile scovare un tesoro nascosto.

 

Attacca, senza interruzione, il brano successivo [Largo – 1’22”] dal tono pensoso e un poco introverso. È un’istantanea sull’altro lato del gioco, una domanda su cosa sia davvero la pace (il brano, nel suo lento procedere, si pone come tentativo di pacificazione della sfrenata ilarità del precedente Vivace).

Qui Stravinsky si trova in perfetta consonanza con Claudel: “La pace in parti uguali di dolore e di gioia è fatta”. La musica infatti sovrappone (nella prima e terza parte) una melodia in re maggiore a una linea di basso in re minore. È una dichiarazione chiarissima di intenti: si vuole capire il mondo (capire = capere, prendere, abbracciare) e si deve quindi accettare anche la sofferenza come dato (ancora una volta) ineliminabile della realtà.

 

Il quarto movimento [Allegretto – 2’22”] ci riporta al clima esaltato del secondo numero anche se qui la scrittura, decisamente più dissonante, è meno lineare quasi fosse un tentativo di estendere la problematizzazione del precedente Largo anche al gioco e alla danza.

 

Sulla stessa linea, ma con ancor maggiore chiarezza, si colloca il successivo Moderato [3’17”] che si rifà con evidenza alla melodia accompagnata di stampo settecentesco. Proprio nella chiarezza del riferimento e nella inequivocabile distanza dallo stesso possiamo cogliere quel tratto caratteristico della prassi musicale stravinskiana. Il riferimento ad una comune koiné musicale (in questo caso alcuni stilemi del XVIII secolo) permette al compositore di esprimere appieno la propria personalità proprio nel dialogo con un passato di cui si condividono, al fondo, le istanze ed i valori al di là di ogni aspetto contingente (che porterebbe invece al manierismo).

 

Irrompe quindi, con baldanzosa sfrontatezza, la successiva marcia [Allegro – 4’07”] dai toni ad un tempo pomposi ed ironici. La grandezza dell’uomo, sembra dirci l’Autore, sta anche nella capacità di ironizzare su se stesso e sui propri tic ed idiosincrasie. Chi si prende troppo sul serio (stimandosi oltremisura) rischia solo di diventare la parodia di quello che crede di essere (comunque “un Grande”).

 

 

 

L’elegiaco Laghetto che segue [5’09”] è colmo di una composta nostalgia. Modellato sul ritmo di siciliana, il brano distende la sua delicata melodia che sembra interamente fatta di una mesta, ma non sconfitta, attesa. Il mio cuore desidera, la risposta deve esserci anche se io ora non riesco a vedere né il come né il quando. È questione di logica.

 

L’ultimo brano della raccolta [Pesante – 6’19”] è dichiaratamente un tango. Il chiaro riferimento a una danza (peraltro assai destrutturata in senso quasi cubista) mostra con evidenza come l’attenzione al dato della realtà (a quello che la realtà è, a quello che la cultura mi dà) e il seguire gli accenni, le indicazioni, talvolta le costrizioni che mi raggiungono e che liberamente accetto (in fondo i passi di danza codificati non sono altro che questo) mi rende realmente creativo e ricco di una fecondità potenzialmente infinita.

 

Così davvero, anche in una piccola raccolta di miniature strumentali, possiamo intuire una possibilità di andare al fondo di noi stessi, grati al Maestro che (come chiosa Florenskij) “non si occupa affatto del problema meschino, che tocca il suo amor proprio, di essere il primo o il centesimo a parlare della verità. Purché sia la verità, il valore dell’opera si darà da sé”