Una piccola oscillazione, l’orma di un passo appena accennato e il doloroso itinerario del Quintetto per pianoforte e archi di Alfred Schnittke si apre dinnanzi a noi.

Scritta dopo l’improvvisa morte della madre del musicista, la composizione ci offre la possibilità di meditare sulla vita, sulla morte e, soprattutto, sul significato di entrambe.
Il desolato motivo iniziale (cuore e motore dell’intera pagina) contiene già in sé quella divaricazione tra il desiderio di senso e lo strappo causato dalla perdita.

A una melodia cromatica Schnittke infatti contrappone una struttura accordale per lo più diatonica (troviamo per ben due volte un accordo di Do maggiore ancorchè in posizione instabile). Due mondi che coesistono, ma che non riescono ad armonizzarsi. L’uno sembra contraddire l’altro. Come per noi. Come nell’eterno duello tra morte e vita.

Lontano da astratte speculazioni filosofiche il compositore russo illustra dunque fin dal principio una sorta di “teatro dell’assenza” fatto di fremiti, di frammenti, di desolati lacerti immersi in un oceano di solitudine. Solo un pianoforte che per quasi due minuti sussurra, prega, geme, implora, ricorda, chiama, si contorce…

L’ingresso degli archi enfatizza ulteriormente questo vero e proprio “paesaggio dell’anima” in cui solo pochi lacerti (ricordi? rimorsi?) popolano la nuda superficie sonora. Un rintocco sopracuto, tarlo e ossessione sonora, cresce inesorabilmente e con lui monta il senso di dramma e di spaesamento fino quasi al parossismo, fino alle soglie dell’urlo d’angoscia, simbolo dell’ineluttabile trascorrere dell’attesa di qualcuno che non potrà più tornare.

La vuota circolarità (ovvero la sostanziale irresolutezza) del primo movimento è certificata inequivocabilmente dalla ripresa, nell’epilogo, del tema sentito in apertura.
L’unica mossa che può operare il ricordo, dice Schnittke, è di condurci, per vie sempre diverse, allo stesso punto, dove dolore e inazione, tragicamente, si fondono.

I Movimento

 

Il secondo movimento si apre con un surreale, inquietante valzer il cui tema principale è costituito (con riferimento quasi teologico) dalle note corrispondenti al nome BACH nella notazione tedesca (sib-la-do-si).

Ed è proprio qui, nel punto in cui il ricordo si concretizza in un feticcio (alias in uno “spettro” – BACH, il Valzer – nel già saputo con cui si tenta di esorcizzare l’ignoto) che troviamo la cifra espressiva di questa pagina, fatta di tentativi plurimi di cominciare episodi melodici che conoscono lo scacco di venire sovrapposti a se stessi girando costantemente in tondo (quasi si trattasse di una condanna cui non è possibile sottrarsi)  e sfociando in raggelate “memorie” di temi precedenti senza che mai si possa intravvedere un porto sicuro in cui rifugiarsi.

È una situazione kafkiana in cui ogni aspetto del reale (soprattutto il più comune) può assumere aspetti mostruosi e disumani.  Tutto è nemico e precario in un mondo in cui l’amante sembra costretto a fermarsi sulla soglia della morte dell’amato.

II Movimento

Dopo il grottesco specchio deformante del secondo episodio, la trafittura dell’unisono che apre il terzo movimento (ulteriore variante del tema iniziale dell’intero Quintetto) ci fa ritirare all’interno della sofferenza.  È come assistere a una sorta di “viaggio al centro del dolore” in cui viene approfondito lo smarrimento, il senso di impotenza e di insanabilità della ferita provocata dall’assenza della persona amata.

Un costante tessuto dissonante in cui tutta la realtà appare sub specie doloris come nell’immortale poesia rilkiana (Orfeo Euridice Hermes) in cui il pianto del Cantore tracio permea l’intero universo, trasformandolo in cosmo dolente.

È qui che, tramata dal costante ripetersi di una sola nota (come nel primo movimento), emerge con sempre maggior violenza (anche fonica) la domanda sul perché.  Improvvise grida degli archi irrompono, feriscono, squarciano il tessuto musicale in un’estrema variante del motivo iniziale.
Perché a me? Perché la vita è fatta così? L’esistenza a cosa serve? E perché esiste la morte? Sembra di sentire una lontana eco di Leopardi: “Se la vita è sventura,/perché da noi si dura?”

Tutte domande apparentemente senza esito, se escludiamo un momento, un minuscolo frammento musicale, un solo accordo perfetto (Lab maggiore) che il pianoforte “grida” quasi fosse l’intuizione di qualcosa che, fino ad allora, non si era mai visto (forse il balenare improvviso di una speranza?).

Poi le ondate di dolore, la “goccia” angosciante del tempo che scorre, vuoto di senso, riprende il sopravvento fino a scomparire nei soffocati, afasici colpi di pedale che chiudono il movimento.
Ma la musica potrà dimenticare quell’istante colmo di altro?


III Movimento

Dei dissonanti, oleosi grumi di suono aprono il quarto momento del viaggio schnittkeano. Il dolore si è diffuso, come una metastasi, per l’organismo e ora il cuore pulsa con accenti di orrore.  Qui è la morte come verminoso disfacimento a dominare incontrastata.

Gli interventi solistici degli archi, quasi una velleitaria ribellione al corso della natura, sono costretti a confluire nuovamente nel viscoso procedere della pagina e se udiamo qualche frammento tematico (ricordo e ferita) è semplicemente un inerte relitto ormai fagocitato dalla melma che, mano a mano, sembra crescere fino al ritorno del rintocco, del tempo che scorre apparentemente senza scopo.

Improvviso [4’36”] compare (senza interruzione) il quinto e conclusivo movimento. Con un colpo di genio degno dei Grandi della storia della musica Schnittke solleva il fondale sul quale aveva finora proiettato i suoi spettri e ci mostra un oceano di bellezza che da sempre, silenzioso, scorreva parallelo a ogni evento, a ogni grido, a ogni pianto.

Si tratta davvero del dischiudersi delle porte di un altro mondo e tutto il male, l’angoscia e la contingenza (che pure riappaiono più volte, memorie frammentarie del percorso fatto) non riescono a prevalere.  L’ultima parola è questa bellezza profondamente logica, questa scoperta a un tempo ignota e nota, come avrebbe detto Eliot.

“Ama chi dice all’altro: tu non puoi morire” ci insegna Gabriel Marcel. Grazie a Schnittke possiamo immedesimarci nel percorso doloroso di un’anima che scopre nelle sue viscere la verità di questa massima del filosofo francese. Come non essergli grati?


IV e V Movimento