A notte fonda, quando le catene che chiudono il cancello sono ben serrate ormai da ore e nessun essere umano si aggira più, si alza una leggera nebbia, fra le tombe e gli alberi. Quella nebbia esce da ogni singola tomba dell’enorme cimitero della vecchia Parigi. Sono ombre che si muovono leggere fra i monumenti che custodiscono i loro resti mortali. Oscar Wilde che ancora non si è liberato delle tentazioni, Abelardo e Eloisa, luce sempiterna della mente pura, Chopin e Amedeo il pittore elegante di Livorno insieme alla moglie suicida che per sempre terrà in grembo il figlio che non ebbero mai. Più in là sta un’ombra solitaria, le altre si radunano attorno a lui mentre recita una sommessa preghiera e una musica scandisce un tempo serrato: “Voglio parlarvi della radio del Texas e del grande ritmo che esce dalle paludi della Virginia”. E mentre le altre ombre si radunano attorno a lui come ogni notte, aggiunge: “Ti parlerò del dolore e della perdita di Dio ti racconterò della notte senza speranza il magro cibo per le anime dimenticato ti parlerò della fanciulla dall’anima in ferro battuto te lo dico io nessuna ricompensa eterna ci perdonerà ora per aver sprecato l’alba”. Le ombre si riconoscono in quelle parole, si uniscono al pianto mentre lui vola via, va verso un palazzo al numero 17 di rue de Beautreillis, nel quartiere di Saint Paul–Le Marais. Là dove vide l’ultima volta Pam, dove Pam lo trovò livido, cadavere, nella vasca da bagno quella mattina del 4 luglio 1971. Mr. Mojo risin’, Mr. Mojo risin’…. si sente cantare sopra i cieli di Parigi. Mister Mojo risorge, ogni notte, ma è una resurrezione vacua, destinata a spegnersi alle prime luci dell’alba.
“Siamo un gruppo orientato al blues, con una notevole dose di rock e alcuni elementi di jazz, pop e sonorità classiche. Fondamentalmente, una blues band bianca” disse una volta Jim Morrison. Il disco che lasciarono come testamento, l’ultimo inciso con il cantante, L.A. Woman è un gran disco blues, quello più blues della loro carriera. In qualche modo in quei primi mesi del 1971 quando lo incisero, i Doors erano tornati alle loro origini. Ma con molta più consapevolezza e tecnica musicale in più. Finiti erano i giorni della psichedelia, delle sperimentazioni orchestrali, dei viaggi cosmici, finito era anche il Re Lucertola. Di fatto, erano finiti gli anni 60 e tutto quello che avevano significato. Anche Jim Morrison stava finendo, stava morendo, ma nessuno se ne rendeva conto. Fu quando collassò sul palcoscenico durante un concerto a New Orleans, nel dicembre 1970, che scattò un campanello d’allarme e il gruppo decise di sospendere l’attività live e di concentrarsi su un disco in studio. La colpa fu data alla fatica delle esibizioni live, allo stress per il processo che Morrison stava affrontando accusato di aver mostrato il pene (che nessuno vide mai) durante una esibizione in Florida. In realtà il cantante stava morendo di troppo alcol e di male del vivere.
La voce di Jim Morrison in questo disco è un urlo furente, come non mai prima, che cerca di lasciare uscire tutti i demoni che lui stesso aveva scatenato. L’energia che sembrava andata dispersa torna a echeggiare tra le mura dello studio di registrazione. In quali condizioni reali fosse, fisicamente, non lo sapremo mai, ma lo immaginiamo attaccato al microfono con le mani rosse per lo sforzo, gli occhi chiusi, i capelli e la barba sporca di schiuma di birra, una bottiglia di vino da scolare tra un pezzo e l’altro.
Inizialmente le registrazioni si tennero ai Sunset Sound Recorders con l’usuale produttore dei Doors, Paul Rotchild che però a metà mollò tutti perché disse che non stava uscendo niente di buono. Si spostarono allora nei loro uffici, il Doors Workshop dove misero su uno studio alla buona. La maggior parte del disco venne fuori live, registrato quasi tutto in presa diretta. Per dire di quanto Morrison fosse concentrato e ci tenesse, si sistemò nel bagno del locale per ottenere un particolare eco e un suono più pieno, che diede ancor più risalto alla sua voce.
Il gruppo lo segue docile con una potenza che non avevano dimostrato mai in studio se non nel primo album, ma solo dal vivo. I brani sono secchi e serrati, esprimono urgenza, come l’iniziale The Changeling, quasi un funk rock, ben sostenuta da tastiere pulsanti e da una chitarra wah wah alla Temptations. Il cantante annuncia che sta cambiando, che se ne sta andando, dove non si sa, a bordo di un oscuro treno a mezzanotte.
Se Love her madly è un piacevole rock’n’roll alla vecchia maniera, opera di Robbie Krieger, con Been down so long Jim Morrison tira fuori una delle sue migliori performance di sempre. La chitarra cerca di inseguire quella voce nera, che arriva dal profondo sud degli States, dallo stesso juke joint maledetto dove Robert Johnson fu avvelenato. Non è un caso che nel disco ci sia una portentosa ripresa di uno di quei bluesmen di un’epoca lontanissima, Big Joe Williams, Crawling king snake, nell’arrangiamento fatto da John Lee Hooker, le cui allusioni sessuali fanno a gara con quelle infernali.
La psichedelica noise de L’America è uno scarto della colonna sonora di Zabriskie Point composta per l’occasione ma rifiutata. C’entra poco con il resto del disco, ma è sempre un bel sentire. Meglio Hyacinth House, che suona come un monito, con i toni dello Springsteen a venire, quello più oscuro e dolorante: “Perché hai buttato via il jack di cuori? Perché hai buttato via il jack di cuori? Era l’unica carta del mazzo che mi restava da giocare”.
Poi c’è uno dei capolavori del disco, The WASP (Texas Radio and the Big Beat), uno spoken word degno di Jack Kerouac sulla base di un blues durissimo e ferente, una istantanea da predicatore del vecchio sud che descrive come sono sorti gli Stati Uniti, nelle paludi della Virginia, dagli schiavi neri, da un grande beat che pulsa nelle vene di questo paese maledetto incapace di mantenere la promessa. Oh, che versi affascinanti: “Alcuni lo chiamano paradisiaco nella sua brillantezza, altri, meschini e dispiaciuti del sogno occidentale, amo gli amici che ho raccolto su questa sottile zattera abbiamo costruito piramidi in onore della nostra fuga questa è la terra dove morì il Faraone”. Ray Manzarek, John Densmore e Robbie Krieger danno il massimo: sono sporchi, ruvidi, graffianti, cattivi.
E poi ci sono quei due pezzi, così unici, così cinematografici, così impossibili da descrivere. Il ritmo ipnotico e incalzante di L.A. Woman, con un Morrison in splendente forma, che dice addio alla città che gli ha risucchiato l’anima: “Motel denaro assassinio follia cambiamo l’umore da felice a triste”. Luci al neon, ragazze nei loro bungalow di Hollywood, sei una signorina fortunata o solo un altro angelo perduto, città della notte, sogni distrutti, Los Angeles muore e io anche. Una chitarra che svolazza e un pianoforte barrelhouse. Ed ecco che appare lui, il demonio, lo spirito voodoo, Jim Morrison stesso che promette la sua resurrezione, Mr Mojo risin’. E’ l’anagramma del suo nome, ma anche un simbolo cantata dai bluesmen dell’uomo nero. E’ una promessa perdente, nella sua voce la disperazione di chi già sa che non sarà, non potrà essere così, non ci sarà resurrezione. Ma che potenza. Che paura. Che terrore. Charles Manson si sveglia nella sua lurida cella, sente quella voce, gli occhi che roteano impazziti e ride ride ride.
Riders on the storm, introdotta da tuoni e pioggia, è la profezia, l’annuncio della fine, quella di cui aveva già cantato nel disco di esordio ma che adesso era quasi arrivata. I cavalieri della tempesta, la morte che arriva. Mistica, solenne, misteriosa, drammatica, su una base jazzata e un Manzarek che dà il massimo. “C’è un killer sulla strada, il suo cervello si contorce come un rospo, Prenditi una lunga vacanza, lascia giocare i tuoi bambini. Se dai un passaggio a quest’uomo la dolce famiglia morirà. Un killer sulla strada”. E’ l’ultimo brano registrato da Jim Morrison prima di morire e che chiude il disco. Il 19 aprile il disco sarebbe stato nei negozi ma lui, Mr. Mojo, è già volato a Parigi con Pam, la città dei poeti, dove vuole dedicarsi solo alla scrittura. Pochi giorni prima di morire gli telefona John Densmore per dirgli che il disco sta andando benissimo. Lui ridacchia: “Pensa allora il prossimo con le cose ho in mente”. Non si sa se scherza o è serio.
“Mio figlio è qualcuno che vorresti conoscere” dirà il padre, l’ammiraglio Morrison, nell’unica intervista concessa. Quella separazione tra padre e figlio che non ha dato loro la possibilità di conoscersi davvero.
Sta sorgendo l’alba su Parigi. Mr. Mojo lascia la casa di rue de Beautreillis e si sofferma sulle guglie di Notre Dame dove un Gargoyle gli sorride, poi ritorna al grande cimitero dove ormai tutte le ombre sono tornate nelle loro dimore di marmo. La sua è tristemente circondata da cancelli, troppa gente balorda si reca lì a ubriacarsi. Hanno rubato anche il suo busto che il padre aveva fatto mettere sopra. Resta la scritta in greco, voluta anche quella dal padre: “Kata ton daimona eautou”. In Greco antico significherebbe più o meno: “Al Divino Spirito che è con lui” o “Fedele al suo spirito”. Ma se tradotta in Greco moderno avrebbe più o meno il seguente significato: “Contro il demone dentro di te”.