Ogni tanto le grandiose macchine produttive dei franchise tentano di giocarsi la carta dell’Autore, del regista affermato per film opposti. I Marvel Studios puntano molto in alto allora, portando tra le loro fila Chloe Zhao, regista premio Oscar e Leone d’oro per Nomadland: lo fanno per affermarsi presso un pubblico non per forza appassionato di questo tipo di spettacolo, magari dando un nuovo lustro ai film, e al contempo per dimostrare una forza produttiva che può permettersi di tutto, anche di inglobare personalità artistiche e creative dentro il proprio meccanismo.
È un po’ ciò che succede con Eternals, nuovo film dell’universo Marvel che racconta i personaggi creati da Jack Kirby, sorta di semidei inviati sulla Terra per difenderla dai Devianti – mostruosi alieni provenienti dal fondo dello spazio – ma che non possono interferire in altro modo con gli umani. Dopo millenni in cui gli Eterni erano inattivi, una nuova minaccia si fa largo e li porterà a scoprire la verità sulla loro natura.
La regista, Patrick Burleigh e i fratelli Ryan e Matthew Firpo scrivono un film che sembra voler ripartire da Avengers: Endgame, non solo per la continuità narrativa, ma soprattutto perché si basa sul bisogno degli umani di essere protetti e salvati dopo la fine temporanea del gruppo di supereroi capitanati da Iron Man, adottando però dei toni più ieratici e quasi messianici.
Così come la saga degli Avengers era una sorta di commento alle questioni politiche interne agli Stati Uniti, Eternals sembra invece porsi simili questioni (è giusto intervenire da una posizione di superiorità, oppure meglio lasciare che l’evoluzione faccia il suo corso?) su un piano mistico e religioso, raccontando una storia di divinità che si ribellano al loro Creatore – che ha delle sembianze molti simili proprio a Iron Man – e che cercano di capire cosa serve agli umani se la loro costante presenza o la capacità di libero arbitrio e pensiero, citando il Vangelo di Giovanni (“La verità vi renderà liberi”).
Il film sembra anche un modo per riflettere sulle nuove frontiere della globalizzazione, che dall’economia è passata all’arte e alla comunicazione per giungere allo spirito, alla comunione delle anime, e queste pieghe del solito racconto epico/mitologico sono forse gli elementi che più hanno interessato Zhao ad accettare, per poter dare un passo più solenne al racconto e mostrare il suo amore per i campi lunghi e lunghissimi, per il paesaggio naturale che diventa interiore.
Per rintracciare fino in fondo il contributo registico della cineasta bisogna però operare un’attenta e paziente analisi, perché il grosso marchingegno Marvel, fatto di narrazione iper-complessa e durate spropositate, flashback continui e costanti colpi di scena, sequenze spettacolari infinite e qui un po’ meno avvincenti della media, di stereotipi comici fatti per alleggerire i toni seriosissimi e immagini di una certa forza visionaria (il ghiacciaio finale), sembra refrattario a ogni autorialismo, a ogni influsso che non sia già dentro il mestiere e il mondo del fumetto, come i fratelli Russo, James Gunn o Sam Raimi.
È una macchina che, come il dio Arishem, nega il libero arbitrio dei suoi ingranaggi, è Hollywood all’ennesima potenza, nel bene e nel male e la riuscita o meno dei singoli film non dipende più dal regista. Anche se ha appena vinto l’Oscar e diretto grandi film.
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