Ogni pellicola, che sia un dramma, una commedia, o un blockbuster fantascientifico, racchiude in sé un frammento dell’uomo o della donna che l’ha diretto. Anche nelle pellicole più insospettabili, quelle che ciascuno di noi per gusto personale fatica a considerare arte, traspare un particolare punto di vista, una lente, e la presenza di questa lente è ciò che ci spinge a guardare un film. Non ci interessa il “cosa”, dopotutto ogni storia è già stata raccontata in un modo o nell’altro; la nostra curiosità sta nel “come”, negli aspetti della storia che il regista ha valorizzato con l’aiuto della sua squadra, nei temi che gli stanno a cuore, nel punto in cui ha deciso di mettere la macchina da presa.



Il piccolo Sam Fabelman (Gabriel Labelle) assiste a un incidente ferroviario sul grande schermo, e ne rimane talmente impressionato da volerlo replicare con il suo trenino giocattolo, ancora e ancora; quando sua madre (Michelle Williams) gli propone di filmarlo, in modo da poterlo rivedere finché non gli farà più paura, pianta i semi di una passione che cambierà per sempre la vita di Sam, il suo rapporto con la famiglia e la lente con cui la osserverà negli anni.



Questa sinossi potrebbe far sembrare The Fabelmans il classico “film sui film” che racconta la gioia del fare cinema, il tipo di film che Hollywood adora e che fa immancabilmente incetta di Oscar. Naturalmente la settima arte ha un ruolo di primo piano, e le sequenze che mostrano i primi progetti di Spiel- ehm, Fableman brillano per il loro calore e spensieratezza: che sia un filmino delle vacanze o un’epica in miniatura sulla Seconda guerra mondiale, l’inventiva che traspare attraverso lo schermo riporta ad atmosfere alla Stand by Me, un tempo in cui tu e i tuoi amici sentivate di poter fare qualsiasi cosa, senza preoccupazione alcuna. Ma è effettivamente così? Ogni volta che il giovane Sam vede il suo lavoro proiettato di fronte alla sua famiglia o in qualche piccola sala, la sua mente è sempre altrove, preso da altri pensieri, pur riconoscendo l’apprezzamento della sua audience. Il cinema è protagonista, sì, ma non come monolite tematico, bensì come mezzo per processare l’adolescenza e il rapporto con la famiglia, che Spielberg non ha mai nascosto avere avuto una grande influenza sul suo lavoro.



Il comparto tecnico è eccellente, ma immagino che nessuno ne sia sorpreso: con Kaminski alla fotografia e John Williams alla colonna sonora (annunciata come l’ultima grande collaborazione del celebre duo compositore-regista), Spielberg si riconferma maestro della messa in scena. La luce, morbida nella fase più “idilliaca” dell’infanzia, muta in modo da accompagnare la crescita del protagonista e la sua presa di consapevolezza; l’accompagnamento musicale brilla per le sequenze col piano, che assumono carattere diegetico (sono cioè interne alla narrazione, essendo i brani suonati dalla madre di Sam). La colonna sonora ha un ruolo di primo piano anche a livello di montaggio, animando sequenze alternate che danno vita ad alcuni degli snodi centrali nella narrazione. Non aspettatevi sequenze spettacolari, ma un uso dosato della macchina da presa e del celebre Spielberg Oner (un piano sequenza che caratterizza una scena risultando quasi invisibile) contribuiscono a valorizzare sia il dramma che i momenti più comici, entrambi abbondanti nella pellicola.

Spicca l’interpretazione di Gabriel Labelle nei panni di un giovane a volte impacciato ma pieno di risorse, costretto a farsi carico di una situazione familiare che vede pian piano implodere. Per quanto riguarda i genitori, Paul Dano regala una prova attoriale contenuta ma non per questo priva di fascino, mentre Michelle Williams è magnetica, se non a tratti sopra le righe; questo lato melodrammatico è giustificato dalla descrizione che Spielberg ha sempre dato di sua madre come una personalità alla “Peter Pan”, ma può risultare comunque marcato. Nonostante il loro minutaggio ristretto, si distinguono anche Judd Hirsch (zio Boris, un parente dai modi originali che ricoprirà per Sam il ruolo di mentore) e un celebre regista di cui non riveleremo l’identità, chiamato a interpretare un altro celebre regista sul finale. A proposito del finale, l’inquadratura di chiusura è un gioiello di inventiva, un’ode alle opportunità e allo stesso tempo un gigantesco occhiolino rivolto agli spettatori.

Il finale del film è energizzante e riuscirà di certo a strappare più di una risata, tanto da passare quasi sopra ad alcuni problemi di ritmo del resto della pellicola. L’attenzione rivolta alle dinamiche familiari, piuttosto che al percorso di Sam, fa sì che il nostro protagonista sembri assumere a tratti un ruolo di secondo piano, e alcune dinamiche rivelate nel secondo atto sarebbero risultate efficaci anche con qualche scena di meno.

La pellicola soffre anche a tratti della sua doppia natura di autobiografia e prodotto filmico: alcune dinamiche sono troppo cinematografiche per ricadere in una ricostruzione fedele dei fatti, come l’arrivo dello zio Boris, presentato in maniera profetica e soprannaturale; altre, ad esempio quella del classico bullo grosso e stupido che pesta il povero e indifeso protagonista, sono stereotipiche e banali, ma vengono in un certo giustificate dalla loro aderenza ai fatti – Spielberg è stato effettivamente discriminato a scuola per il suo essere ebreo.

Nonostante questi difetti, The Fabelmans mantiene il classico feeling che ricerchiamo in un film di Spielberg, ottimismo e calore a dispetto delle problematiche trattate. Un lavoro introspettivo, non scontato neanche da parte di un tale autore; il tema della passione artistica non solo come supporto, spinta e valvola di sfogo, ma anche come lente per processare e valutare la propria vita. Questa pellicola è un classico “film sui film”, ode al cinema e potenziale strappalacrime? Certo, così come è certo che si merita un posto sul podio nella categoria.

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