Da qualche anno, il pubblico del cinema d’azione si sta accorgendo sempre più di quanto l’importanza degli stunt sia decisiva nella realizzazione dei film, nell’economia generale della messinscena, tanto da diventare in molti casi registi, non solamente delle seconde unità, di norma quelle che si occupano dell’azione. Il caso che ha cambiato le regole del gioco è quello di David Leitch che, insieme al collega Chad Stahelski, ha fondato una casa di produzione, 87Eleven, con la quale hanno creato John Wick e una serie di film che hanno rinnovato l’interesse verso l’arte degli stuntman, tanto che dentro l’Academy si parla di assegnare a breve un Oscar allo stunt migliore.



Il definitivo omaggio a questo settore è quello che proprio Leitch fa con The Fall Guy, commedia d’azione uscita lo scorso maggio e che recuperiamo per questa estate cinematografica (si trova a noleggio su Apple TV). Racconta di Colt (Ryan Gosling), uno stuntmen espertissimo, che dopo un grave incidente sul lavoro si deprime e si chiude a riccio; quando la sua ex fiamma, Jody (Emily Blunt), regista della seconda unità che sta per realizzare il suo primo film da regista, lo richiama, Colt accetta, ma finisce in un guaio che riguarda la stella del film (Aaron Taylor-Johnson), misteriosamente scomparsa.



Ispirandosi molto lontanamente a una serie tv degli anni ’80 (in italiano Professione pericolo), lo sceneggiatore Drew Pearce scrive un thriller avventuroso che è anche un film meta-cinematografico e una commedia di “rimatrimonio” come quelle della Hollywood classica: un frullato magari non perfetto, ma che regala più di una sorpresa, soprattutto per i cinefili. The Fall Guy, infatti, è prima di tutto un omaggio alle opere, film e serie tv, che hanno fatto la storia degli stuntman, da Kill Bill a Miami Vice fino a Hitchcock, ma mentre celebra il talento di chi rischia la vita per divertire il pubblico mette al centro una serie di riflessioni, non seriose ma comunque interessanti, sul ruolo che il cinema dei corpi in pericolo ha nel cinema iper-digitale e quasi spersonalizzato di oggi.



Leitch costruisce un film sull’azione, più che d’azione, in cui l’intreccio thriller e le scorribande che Gosling e soci affrontano – coordinati da Keir Beck e al regista della seconda unità Chris O’Hara – sono conseguenza e non il centro del racconto, scaturiscono dalla realizzazione del film e dalla storia sentimentale, non il contrario. Se la sceneggiatura rischia di incepparsi e confondersi qua e là, specie verso la risoluzione del complicato intreccio, è la messinscena a rendere riuscito e coinvolgente il film: Leitch non lascia che l’esecuzione perfetta dell’azione si mangi il film, come nei film di John Wick, ma fa in modo che diventi il veicolo con cui lo spettatore possa comprendere il senso del lavoro della controfigura.

La scelta del piano sequenza e dell’inquadratura lunga, magari in campo medio, rende reali le cose, aumenta l’effetto per chi guarda esaltando il lavoro dello stunt, proprio come insegnò Jackie Chan più di 40 anni fa; questo senso di realtà serve quindi non solo a magnificare il lavoro di chi salta, cade, si prende pugni e bastonate, ma anche a dare consistenza e concretezza al resto del racconto, all’idea di cinema in quanto tale e, quindi, rende vivido il rapporto tra i due protagonisti, al cui carisma si aggiungono la giusta alchimia e la costante tensione.

La pratica del racconto e gli elementi di commedia e azione sono sicuramente più compiuti rispetto alla teoria, ma è bello vedere un film ad alto budget e di impatto super-popolare che si pone quasi come una versione di Effetto notte con le esplosioni e le cadute. Come se Truffaut si mescolasse con Michael Bay.

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