Mi è capitato, una volta, di sentire Wes Anderson definito come “quello che fa delle bellissime torte”. Scartando l’ipotesi che l’autore di questa citazione stesse soffrendo di un grave calo di zuccheri, non è difficile capire cosa intendesse: i film del regista statunitense sono contraddistinti da una simmetria pedissequa, colori pastello e inquadrature tanto elaborate quanto rassicuranti e fumettose. Tuttavia, volendo portare avanti la metafora della torta, The French Dispatch rappresenta una mezza stranezza nella pasticceria di Wes Anderson: se da una parte ritroviamo tutti i marchi di fabbrica sopracitati, questa sua ultima opera si propone di giocare con essi, a volte ribaltandoli – togliendo ad esempio i colori – a volte portandoli all’estremo – con inquadrature elaboratissime tra piani sequenza, cambi di formato e fondali in movimento. The French Dispatch è un’opera incredibilmente densa, colma di strati e immagini complesse, e andremo ora a commentarla fetta dopo fetta.



Nella cittadina francese di Ennui-sur-Blasé (letteralmente Noia-su-Apatia) si erge la sede del giornale The French Dispatch, le cui pagine danno una voce a una serie di eccentrici scrittori ognuno con le sue manie e particolarità. Quando l’editore e fondatore Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray) muore di infarto, il resto della redazione rispetta la sua volontà di sospendere la produzione della testata, mettendo assieme un numero conclusivo composto dalla ristampa di tre articoli di edizioni passate. Ci troviamo quindi di fronte a un film antologico, composto da una cornice che apre e chiude la narrazione più una vignetta e tre racconti, le cui trame sono accomunate solo dalla passione con cui vengono messe in scena.



Dopo una sequenza in cui Owen Wilson ripercorre la storia della città scorrazzandovi in bici dal mattino alla sera, visivamente deliziosa ma di breve durata, ha inizio il primo articolo: accompagnati dalla narrazione di una spumeggiante Tilda Swinton, seguiamo la storia di Moses Rosenthaler (Benicio del Toro), pittore tanto geniale quanto iracondo condannato a cinquant’anni di carcere per duplice omicidio. Questo nostro primo protagonista, grazie anche alla caratterizzazione dei suoi rapporti con la carceriera/musa Simone (Lea Seydoux) e con Julien Cadazio (Adrien Brody), mercante d’arte, amico e profittatore, è animato dalla performance migliore di tutta la pellicola, lunatica e malinconica al tempo stesso.



La produzione artistica di Rosenthaler all’interno dei muri della prigione darà vita a una serie di vicende raccontate con dovizia di particolari dal personaggio della Swinton, durante una conferenza che è a sua volta un ricordo riesumato in occasione dell’ultimo numero del giornale. Wes Anderson non ha perso il suo amore per le cornici narrative, già ampiamente utilizzate in Grand Budapest Hotel, ma qui vi aggiunge ulteriori livelli tramite l’uso del bianco e nero – spezzato da brevi lampi a colore densi di significato – e dei cambi di formato – che alterano le dimensioni delle immagini e le dividono in ulteriori riquadri, creando un gioco di scatole cinesi. Il resto del comparto visivo è eccellente come al solito, ma tra i piani sequenza e i movimenti di macchina misurati tipici del regista si nascondono alcune piccole sorprese, come una scena ripresa con macchina a mano che sfocia in un inseguimento degno di un episodio di Scooby-Doo.

Il contrasto tra l’assurdità dello stile e la profondità della sostanza, già evidente nel primo articolo, riemerge con prepotenza in quello successivo, ambientato durante i moti francesi del ’68. In questo periodo di tumulti e conquiste sociali il giovane Zeffirelli (Timothée Chalamet) stila un manifesto con l’intento di rivendicare per sé e per i suoi compagni universitari il libero accesso al dormitorio delle ragazze. A documentare la demenziale diatriba tra studenti e autorità è lo sguardo di Lucinda Krementz (Frances MacDormand), giornalista solitaria che finirà coinvolta negli sforzi dei rivoluzionari.

Anche se in questa seconda parte i passaggi da colore a bianco sono meno giustificati, essa compensa con una scenografia che fonde il café Sans Blague – roccaforte degli studenti – e il resto della città, tramite fondali mobili i cui spostamenti toccano anche il piano temporale, trasportandoci tra diversi livelli della narrazione. La colonna sonora di Alexandre Desplat, meravigliosamente eccentrica, è supportata in questa parte centrale dai brani dell’epoca, che commentano il dipanarsi degli eventi e sono commentati a loro volta dai protagonisti, che li trasformano in simboli delle proprie posizioni. Anche se le modalità della loro rivoluzione sono del tutto assurde, tra partite di scacchi in trincea e sfide intergenerazionali che sembrano più dei dispetti, essa viene raccontata senza alcun fronzolo, mostrando nascita, crisi e morte di un movimento con una lucidità che lascia l’amaro in bocca.

Il terzo e ultimo articolo segue le rocambolesche avventure del giornalista culinario Roebuck Wright (Jeffrey Wright), che nel tentativo di intervistare il poliziotto-chef Nescaffier (Stephen Park) finisce coinvolto nel rapimento del figlio del commissario da parte di una banda di criminali. L’operazione di salvataggio, che si destreggia tra il ridicolo e il tragico in perfetto equilibrio, mostra una volontà di superarsi e di stupire vistasi raramente in pellicole recenti: quando credi che il film non ti possa presentare più altre immagini, sequenze o trasformazioni mirabolanti quanto le precedenti, ecco che un inseguimento partito in maniera “classica” – qualunque cosa voglia dire in un film di Wes Anderson – diventa di colpo animazione, mantenendo la complessità delle immagini sopracitata ma traslandola in tutt’altro mezzo. Oltre ai meriti visivi, quest’ultima parte è l’unica a mettere veramente in rilievo la figura del fondatore del giornale, la cui ferocia nel difendere gli scrittori di cui ha fiutato il talento ha permesso alle storie sopracitate di prendere vita sulle pagine del giornale nella migliore delle forme.

Durante la realizzazione di un film si tende a operare una serie di scelte con l’obiettivo di rafforzare la sospensione dell’incredulità, cioè far dimenticare allo spettatore che tutto ciò che sta vedendo è finzione. Naturalmente non è questo il caso: gli ambienti in cui si muovono i personaggi sono troppo simmetrici, i loro dialoghi troppo incalzanti. The French Dispatch abbandona ogni pretesa di realismo per mettere in scena uno spettacolo, un vortice continuo di immagini e movimenti che traduce in pellicola l’amore di Wes Anderson per il giornalismo, e in particolare per il The New Yorker, le cui pagine hanno ispirato alcune delle storie.

È uno stile tutto sommato in linea con la sua filmografia precedente? Sì. Finirà mai per stancare? Finché ci regalerà tali emozioni e gioie per gli occhi, non credo proprio.

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