La scrittura esperta e inconfondibile di Julian Fellowes (Gosford Park, Downton Abbey, The English Game) ci accompagna in una seconda stagione di The Gilded Age di gran lunga superiore alle prima (entrambe disponibili su Sky e NowTv, l’ottavo e ultimo episodio è in programma per lunedì). Le vicende delle due famiglie dirimpettaie di Parker Avenue – i Russell e i Van Rhijn – si intrecciano ancora di più con lo sviluppo e lo splendore di una città come New York nella seconda metà dell’Ottocento. Siamo ormai giunti agli anni della svolta, quando la vecchia città portuale, luogo dove si ammassano da decenni immigrati provenienti da ogni parte del mondo, prende una sua forma e si trasforma nel grande agglomerato urbano che oggi conosciamo.



È tra il 1880 e 1890 che si inaugurano il ponte di Brooklyn, il Metropolitan Opera House, le grandi ferrovie verso l’Ovest. La vittoria nordista non ha risolto del tutto il problema dell’integrazione della gente di colore, ma è a New York che nascono le prime scuole interrazziali, il sindacato operaio, le associazioni degli imprenditori.



Le vite dei Russell e dei Van Rhjin trascorrono in un’apparente normalità. Essi sembrano solo in parte accorgersi di quanti cambiamenti stanno vorticosamente sconvolgendo le loro esistenze. In particolare sorprende la resistenza alle novità della zia Agnes – da segnalare la superba interpretazione di Christine Batanski (Cybill, The Good Wife, The Big Bang Theory) – che deve scontrarsi in continuazione con la vivacità culturale di Marian Brook, la giovane nipote arrivata dall’ovest dopo la morte del padre generale nordista. Ma anche con la più docile sorella Ada, interpretata da Cynthia Nixon, che grazie al sostegno di Marian trova la forza per fare la prima scelta in autonomia della sua vita.



Ma la storia principale è quella dei Russell, la potente famiglia borghese in ascesa. Anche in questo caso a tenere le fila è la donna di casa, Bertha, a cui il potente marito George ha affidato la strategia per trasformare la ricchezza accumulata e il potere economico in rispetto dell’alta società. Ma nulla sembra dovuto e ogni occasione è buona per dare vita a una vera e propria guerra di classe tra i nuovi ricchi e i resti di una nobiltà che ormai non ha più un posto nella caotica società americana.

George Russell ha investito praticamente ovunque: nelle ferrovie, nella costruzione dei ponti e nell’industria siderurgica, ma anche nel grande nuovo teatro di New York e nella lussuose ville di Newport dove i newyorkesi influenti amano trascorrere le vacanze. Nonostante i suoi successi imprenditoriali non riesce a tener testa al sindacato che lo minaccia e agli altri imprenditori che nutrono invidia per i suoi risultati. Eppure l’energia che George e Bertha mettono nella loro ascesa sociale appare chiaramente il vero motore dello sviluppo e della crescita, l’anima del capitalismo.

Nella ricchezza con cui si descrivono tanti personaggi, il continuo passare dalla vita lussuosa dei padroni di casa alle regole ferree che scandiscono i tempi della servitù è racchiusa la forza principale di tanti lavori di Julian Fellowes. Con questa differenza: nelle storie che hanno luogo in Inghilterra, il difficile equilibrio tra tradizione e cambiamento resta sospeso nel tempo grazie anche a uno sviluppo economico tutto sommato ordinario. Qui negli Stati Uniti l’equilibrio è destinato a finire molto presto, sotto l’effetto di un progresso economico inarrestabile e tumultuoso.

Inutile sottolineare ancora una volta come una sceneggiatura di altissimo livello si è sposata in The Gilded Age con una produzione eccellente. Case arredate con un’attenzione maniacale ai gusti dell’epoca, ricchi costumi e ambientazioni curatissime che trovano nelle scene di grande partecipazione il loro giusto trionfo. Un cast di altissimo livello completa un prodotto perfetto.

Ancora una volta HBO ha il merito di dare vita a un nuovo tassello dedicato alla ricostruzione della complessa storia di ciò che ha reso possibile la vita cosi come la conosciamo oggi.

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