Mi è capitato recentemente di imbattermi nella serie televisiva The good place, su consiglio di un collega di lavoro. Non posso dare un giudizio sulla serie in sé, né fare una recensione, avendone guardato solo due episodi, eppure tanto è bastato per sviluppare una riflessione.

La serie è ambientata nell’aldilà, che si scopre essere diviso in parte buona e parte cattiva (good place e bad place). Ma non è la trama quello che ha catturato la mia attenzione, piuttosto è stata la spiegazione, data subito all’inizio della prima puntata, di come le persone vengono mandate in un posto piuttosto che in un altro: «Durante la vita sulla terra ogni azione ha ricevuto un punteggio positivo o negativo, a seconda di quanto bene o male quell’azione ha messo nell’universo. Ogni cosa fatta nella vita ha creato un effetto che si è propagato nel tempo per creare alla fine una quantità di bene o di male. Quando il tempo della persona in questione termina viene calcolato il valore totale della vita usando un accuratissimo sistema di misurazione. Solo le persone con un punteggio molto alto arrivano qui, nella parte buona. Come sono finiti gli altri? Non vi preoccupate, ciò che conta è che voi (chi è nella parte buona) siete finiti qui, perché avete vissuta una delle vite migliori che si potessero vivere».



Ascoltare queste parole, pur all’interno di una serie televisiva che vuole essere divertente e che nelle prime due puntate mi ha strappato qualche sorriso, mi ha stupito: forse che questo sistema, così presentato, non è altro che un giustizialismo estremo ammantato di correttezza? In fondo, questa è la tesi, solo i meritevoli possono accedere alla vita nell’aldilà perfetta, al good place, degli altri è meglio non preoccuparsene: non erano “abbastanza” per poter essere lì. In realtà non è proprio così, non sono scelti i meritevoli ma i migliori tra i meritevoli. Cioè, non basta che le azioni siano buone, ma devono essere performanti, o, meglio ancora, devono essere molto buone, perché solo così possono avere un punteggio alto. E l’errore non è ammesso, anzi è penalizzate, è un punteggio negativo che inciderà sulla possibilità di salvezza (riservata comunque a pochissimi) di ciascuno.



Un sistema del genere è, forse, il riflesso della cultura moralistica in cui viviamo, e mi colpiva molto l’idea che nulla di un errore possa essere perdonato e che questo sia solo un motivo di condanna, una penalità che la persona si porta dietro per tutta la vita: di fatto non si condanna il male, quanto piuttosto la persona che lo ha compiuto. Così come mi colpiva il fatto che il male scaturito dall’errore non possa essere fermato.

Queste ultime due considerazioni da sole tolgono ogni possibilità di misericordia, di perdono e di giustizia. Proprio perché non può esserci giustizia se non c’è misericordia e non si può fermare il male senza perdono.



Ho trovato questa modalità di selezione stridente e straziante e mi sono ritrovato, quasi senza accorgermene, a paragonarla all’esperienza cristiana, trovandovi il contrario dei criteri della serie («la fragilità dei tempi in cui viviamo è anche questa: credere che non esista possibilità di riscatto, una mano che ti rialza, un abbraccio che ti salva, ti perdona, ti risolleva, ti inonda di un amore infinito, paziente, indulgente», Francesco). Il cristianesimo è la religione che esalta l’uomo e la sua libertà proprio perché non è vincolato a un doverismo da rispettare per arrivare a un ambito premio, quanto piuttosto è implicato in una relazione da vivere (che, certo, richiede alcuni punti fermi, ma non è così del resto ogni relazione umana?). Il “perfetto meccanismo” di The good place sembra nascere da un mondo che non vive l’esperienza cristiana e che, sola, apre a ogni uomo la possibilità della redenzione.

Ecco cosa rimane senza Cristo: un mondo che pretende la perfezione, lasciando indietro chi non risponde ai suoi criteri. Che, essendo umani, pur partendo da un’esigenza di giustizia, finiscono per essere cinici e, in definitiva, disumani.

Invece la possibilità di bene per ogni uomo non è solo una buona azione da compiere, ma una Presenza da scoprire nell’oggi della storia e che ama l’uomo in quanto uomo («Ti ho amato di un amore eterno», Ger 31,3), consapevoli che, se l’unità di misura fosse quello che di giusto è stato fatto nella vita, chi potrebbe definirsi buono davanti a Dio («Nessun vivente davanti a te è giusto», Salmo 142)?

Credo che Réginald Garrigou-Lagrange, teologo del secolo scorso, riassuma bene la differenza tra i criteri del mondo e quelli di Cristo: «La Chiesa è intransigente sui principi perché crede, ma è tollerante nella pratica perché ama; i nemici della Chiesa sono tolleranti nei principi perché non credono, ma intransigenti nella pratica perché non amano. La Chiesa assolve i peccatori, i nemici della Chiesa assolvono i peccati» (Dieu, son existence et sa nature).

Ecco allora cosa ho visto in questi primi due episodi di The good place: un posto costruito su una giustizia dove nulla è basato sull’amore.

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