Il successo dei quattro film diretti per i Marvel Studios (due Capitan America e due Avengers), soprattutto presso la critica e i cinefili, nonché nelle classifiche d’incassi, ha portato i fratelli Russo – Anthony e Joe – a cercare una propria identità di registi e produttori oltre la casa dei supereroi, una ricerca che li ha portati presso le piattaforme streaming a cui hanno consegnato in dote una particolare pratica della gestione del set, del rapporto amichevole con gli attori, di un’atmosfera rilassata. Dopo il fallimento di Cherry, Netflix si è assicurata i loro servigi per realizzare il più costoso film prodotto dalla piattaforma The Gray Man.
Tratto da un romanzo di Mark Greaney, il film racconta di Sierra Six (Ryan Gosling), un mercenario al soldo della CIA che scopre incidentalmente dei torbidi segreti dell’agenzia e si trova al centro di un bersaglio incrociato di assassini ed ex-agenti guidati da Lloyd Hansen (Chris Evans).
Un plot tipico dello spionaggio che Joe Russo, Christopher Markus e Stephen McFeely usano come canovaccio per imbastire un’ennesima rilettura delle strutture dei film con James Bond o di Mission: Impossible corretta con l’estetica di John Wick e il gusto per il corpo a corpo, al fondo della quale si fatica a leggere un vero intento, un punto di vista anche produttivo e registico, a differenza di quanto avveniva in Cherry o in Mosul, film diretto da Matthew Michael Carnahan e dai fratelli prodotto.
L’obiettivo è sfruttare il faraonico budget per realizzare il più spettacolare dei film possibili, per movimentare i meccanismi della spy story puntando al record mondiale di location – di cui buona parte sprecate -, alla sotto-trama anni ’90 in cui Gosling deve badare a una ragazzina malata, allo sfoggio di pessime scenografie digitali o di droni che diano una nuova visione alle sequenze movimentate (basterebbe però fare un rapido paragone con Ambulance, diretto da Michael Bay, per accorgersi di come i Russo siano in retroguardia, nonostante tutto).
Ciò che i registi non colgono è che l’azione e il ritmo sono due cose parecchio differenti e questo dettaglio impedisce la realizzazione di sequenze realmente spettacolari o memorabili, a parte l’inseguimento sul tram per le vie di Praga o la fuga dal pozzo in stile McGyver, blocca l’inventiva plastica e coreografica che in film simili è fondamentale (il solo trailer del prossimo Mission: Impossible si mangia l’intero film dei Russo) e rende difficile voler seguire le cose che accadono tra una sparatoria e un combattimento.
Forse i due registi hanno preso troppo sul serio l’ironia del titolo, l’uomo grigio che indica un agente operativo che si muove nell’ombra, tra buoni e cattivi, non dando nell’occhio; il loro è un film grigio, senza carisma, che si muove tra franchise di successo nella speranza di crearne un altro, ma sembra difficile voler vedere fra un paio di anni un altro prodotto per il cui protagonista, o anche solo per il suo mondo narrativo, non si prova alcuna attenzione.
È un lavoro che si fa con la scrittura e con la regia, molto prima che con il budget, il quale è un mezzo che va saputo utilizzare; e sì che alla Marvel sembrava che i Russo lo sapessero fare.
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