Gilead è tra noi. E se tutte le donne del mondo vedessero The Handmaid’s Tale molto probabilmente avrebbe inizio la più grande rivolta globale di tutti i tempi. Altro che lotta al terrorismo islamico, altro che opposizione al fascismo di stampo orbaniano e ai rischi di sottomissione sovranista. Basta lavarsi le coscienze protestando per quello che sta accadendo in queste ore alle donne in Afghanistan restituita ai talebani. In ogni angolo della terra le donne sono oggetto quotidiano di violenze, soprusi, intimidazioni. Finanche qui da noi, che ci consideriamo culla della libertà e della democrazia, procediamo alla velocità di circa un femminicidio al giorno. Vi sembra poco?
The Handmaid’s Tale, tradotto nella nostra lingua in Il racconto dell’Ancella, è il manifesto di tutto questo. Il libro di Margaret Atwood ha ispirato una serie tv di successo. E molto probabilmente la quarta stagione apparsa sui teleschermi quest’anno (la trovate in esclusiva su TimVision) farà falcidia di premi alla 73ma edizione degli Emmy Awards che avrà inizio tra poche ore. Meritatamente. È la produzione televisiva che ha più di ogni altra smosso le coscienze, il contributo più elevato che la tv potesse dare alla prima causa mondiale, alla battaglia universale del momento, all’emancipazione totale della donna, ovunque.
La storia è simile a tanti altri racconti di resistenza. Solo che normalmente “le resistenze” che conosciamo sono fatte da uomini contro altri uomini, in nome della libertà, della democrazia, dei diritti sociali. Siamo abituati a pensare alla resistenza come a una forma estrema di lotta politica, tra schieramenti e fazioni animati da ideologie, religioni, interessi economici. In The Handmaid’s Tale la resistenza è guidata da una donna, riguarda le donne di ogni età e provenienza, è alimentata dalla reazione a soprusi, angherie, violenze corporali di ogni genere compiuti su di loro solo perché donne.
Gilead, in un futuro distopico, ha trasformato gli Stati Uniti d’America in un Paese autoritario fondato sulla sottomissione della donna. La ragione di tutto ciò è che da anni si assiste a un crollo delle nascite. I leader di Gilead ritengono che la principale causa sia da individuare nei comportamenti e nelle libertà di cui godono le donne, libere di gestire la propria sessualità, libere di diventare madri, libere di preferire il loro lavoro.
Gli uomini di Gilead si inventano quindi un regime in grado di incrementare le nascite e combattere l’infertilità. Per ottenere questo risultato devono sottomettere le donne, che sono suddivide in tre grandi categorie: le Spose, che in generale appartengono alla classe agiata e che hanno il solo compito di crescere i figli; le Marte, destinate alla cura della casa e delle famiglie; e le Ancelle, le poche donne rimaste fertili, che sono assegnate alla riproduzione presso le famiglie dei comandanti. Attraverso riti che evocano scene bibliche, esse sono violentate dai maschi. Appena partorito, i neonati vengono affidati alle spose. Le ancelle hanno il divieto assoluto di leggere, parlare, cercare di vedere i loro figli.
June Osborne ha subito il destino di molte altre donne americane. Catturata durante un tardivo tentativo di fuga in Canada viene separata dalla figlia Hanna e destinata al ruolo di ancella. È assegnata a una potente famiglia di Gilead, quella del comandante Fred Waterford e di sua moglie Serena. June ha un carattere forte, reagisce spesso (indispettisce, direbbe la Palombelli), e alla fine – usando le crepe del sistema di potere di Gilead – organizza la resistenza, ne diventa una leader riconosciuta in tutto il mondo, mette in crisi il regime.
The Handmaid’s Tale è la favorita principale alla vittoria agli Emmy, e domani sapremo in quante categorie prevarranno i numerosi candidati che hanno superato la prima selezione. Oltre alla nomination come migliore Serie Drammatica, per il ruolo della protagonista June Osborne ha ottenuto la candidatura per il terzo anno consecutivo Elisabeth Moss (che ricordiamo nei panni Zoey, la figlia del presidente Bartlet in The West Wing e in quelli di Peggy Olson di Mad Men), già vincitrice del premio nel 2017.
Ben quattro (su otto) sono le candidature nella categoria Miglior Attrice non protagonista in una serie drammatica. Da Madeline Brewer, splendida interprete di Janine, la compagna un po’ svitata di June, ad Ann Dowd, la perfida zia Livia, responsabile delle ancelle; da Yvonne Strahovski, che interpreta Serena, a Samira Wiley, nei panni di Moira, l’amica di June che riesce a mettersi per prima in salvo in Canada da dove sostiene la resistenza, già vincitrice di un Emmy.
Ma anche tra gli uomini abbiamo numerosi candidati al successo finale, ben tre su otto. Concorrono O-T Fagbenle, interprete di Luke, marito di June riparato fortunosamente in Canada, Max Minghella, nei panni del giovane comandante Nick Blaine, e infine Bradley Whitford (lo ricordiamo con la Moss protagonista della serie The West Wing nel ruolo del consigliere Josh Lyman) interprete del comandante Joseph Lawrence, ideologo ormai pentito del regime di Gilead, e che per riscattarsi aiuterà in ogni modo June.
Senza dimenticare la candidatura alla regia di Liz Garbus e quella per la miglior sceneggiatura di Yahlin Chang. Il creatore della serie Bruce Miller e la MGM sono ora alle prese con la quinta e ultima stagione. Solo allora sapremo se la resistenza guidata da June avrà successo. Solo allora sapremo se il mondo libero e civilizzato avrà capito la lezione.
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