Da’Vine Joy Randolph ha meritatamente vinto l’Oscar come attrice non protagonista nella irresistibile e stimolante pellicola The Holdovers – Lezioni di vita. Si trasforma infatti in modo magistrale da madre di colore inconsolabile, che ha perso un figlio soldato nella guerra del Vietnam, in mamma attenta e spiritosa dei rampolli di buona famiglia della scuola in cui impersona la cuoca Mary. Ha in particolare un occhio di riguardo per il più scapestrato dei ragazzi, il quindicenne dinoccolato Angus (interpretato dal bravo esordiente Dominic Sessa), costretto a passare le vacanze di Natale del 1970 nell’Istituto, perché i suoi lo hanno “dimenticato”.



Dell’improbabile “nuova” famiglia natalizia fa parte anche, suo malgrado, l’inflessibile e respingente professor Paul Hunham (un Paul Giamatti in stato di grazia), docente di storia antica, sprezzante nei confronti dei privilegiati e scanzonati studenti, riottosi ai codici comportamentali della Barton Academy – questo il nome della prestigiosa scuola – di quegli anni. Ma proprio la massima “conosci te stesso”, richiamata acutamente nella classe di Angus dal professore poco amato, ma non privo di spessore umano, diventerà per i tre protagonisti la meta e il relativo percorso di cambiamento. Trovandosi a condividere forzatamente i giorni di festa, impareranno con fatica e dolorosa sincerità a scoprire la loro personalità più profonda, condividendo momenti difficili ma speciali della loro esistenza passata.



Il professore, l’alunno e la cuoca cominceranno così a confidarsi l’un l’altro con autenticità a volte ruvida, al punto che Mary oserà richiamare senza peli sulla lingua l’integerrimo professore: “Non può dire a un ragazzo che a Natale è stato abbandonato dai suoi che nessuno al mondo lo vuole. Che le dice il cervello?!”. D’altra parte il vecchio professore, un holdover, cioè un funzionario che è rimasto in carica oltre i tempi fisiologici, deve riconoscere che non ha certo una visione della vita felice e serena: “Io trovo il mondo amaro e complicato da morire e il mondo di me ha la stessa opinione”. Ma sarà proprio questa franchezza ad aprire nuovi orizzonti per ciascuno di loro. Infatti, i tre personaggi ci paiono inizialmente persone dimenticate, appunto “lasciate indietro”, mentre tutti se ne vanno in vacanza: sono dei perdenti, insomma.



Paul Giamatti sembra il “residuo” di un’altra epoca, sia per interessi che per sistemi educativi (ha osato dare l’ennesimo brutto voto a uno studente negligente, figlio di un importante finanziatore della scuola); Angus è un ragazzo intelligente ma sempre sull’orlo dell’espulsione perché sconta l’assenza della madre, occupata nella luna di miele con il nuovo marito, mentre il padre è ricoverato per gravi disturbi psichiatrici; Mary ha appena perso il figlio, costretto ad arruolarsi nella guerra del Vietnam, ed è piegata dal dolore che cerca di nascondere.

Sembrano condannati a una solitudine senza scampo. Ma, nonostante tutto, proprio dalla loro fragilità e sofferenza si aprono a una prospettiva nuova, uscendo quasi da se stessi e, in fondo, da stereotipi abbastanza scontati: il professore arcigno e inflessibile, la cuoca burbera ma saggia, l’alunno svogliato e scontroso. Il rinnovamento è radicale per tutti. E parte proprio da quella strana “famiglia” costituita dai tre holdovers , che li riapre alla vita, ciascuno con il proprio fardello da accettare e condividere. La difficoltà nei rapporti interpersonali di Paul, la perdita del “suo” ragazzone di Mary, l’abbandono in cui si trova lo smarrito Angus, alla ricerca del padre malato e di una madre scandalosamente indifferente. Il passato di ognuno di loro viene affrontato attraverso un’improvvisata gita scolastica nella non lontana città di Boston, con piccole ma significative avventure, che permettono loro di conoscersi veramente, di perdonarsi e di perdonare.

Anche se la tematica e l’ambientazione non possono non ricordarci per affinità il celebre L’attimo fuggente, in realtà il poco affascinante Paul Giamatti ci offre una prospettiva più plausibile e meno pretenziosa di quella del professore incantatore (Oh Capitano, mio capitano!) del compianto Robin Williams, che cercava in tutti i modi di conquistare i suoi studenti. Qui a far ritrovare il gusto della vita ai “perdenti” è piuttosto quella solidarietà umana che si sprigiona solo se il rapporto personale si apre all’incontro vero con l’altro. Gradualmente scopriamo che cosa si nasconde dietro la corazza dei tre personaggi, attraverso rivelazioni intime che mostrano pregi e mancanze di chi dall’esistenza ha ricevuto prove che gli sono sembrate insormontabili.

Senza sentimentalismi, perché se è vero che non mancano i momenti di commozione, durante il film si ride anche, e di gusto, il che rende più credibile e accettabile il sostrato di dolore che emerge dalla condizione dei protagonisti. In fondo sia Paul che Angus che Mary non appartengono veramente all’ambiente d’élite di quella scuola. Ma attraverso la crescita inaspettata ma voluta di un legame autentico tra di loro mostrano la possibilità di maturazione e di cambiamento per ciascuno. Ed è peraltro il compito che ogni vera scuola dovrebbe assumersi e che i giorni pasquali, con il loro messaggio di speranza, ci indicano come strada aperta per ogni essere umano.

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