Magari è fin troppo facile trovare echi di attualità ogni volta che un film parla di solitudine, isolamento, o anche come nel caso di The Midnight Sky, di fine del mondo, ma il film di George Clooney distribuito da Netflix sembra proprio parlare anche della situazione del nostro pianeta e di chi lo abita, sebbene sia tratto da un romanzo (“La distanza tra le stelle” di Lily Brooks-Dalton) del 2016.



Il film, girato tra la fine del ’19 e l’inizio del ’20, racconta di Augustine (Clooney) nel 2049, solo dentro una stazione scientifica del Polo Nord dopo che la Terra è stata evacuata perché ormai invivibile e i suoi abitanti trasportati su un pianeta che potrebbe essere abitabile. Malato terminale l’uomo resta sulla Terra, cercando di contattare almeno una delle navi volate nello spazio: all’improvviso, trova una bambina (Caoilinn Springall) nella stazione e una delle navi lo riceve mentre sta facendo ritorno proprio sulla Terra.



Film di fantascienza intimista, sulla riscoperta dei rapporti umani come scintilla di vita, scritto da Mark Smith riempiendo la storia di tenerezza e malinconia e cercando una via matrilineare al genere, sulla scia di James Cameron (Aliens, The Abyss, Avatar) senza però le massicce dosi di azione o l’enfasi spettacolare.

Anzi, tutto il film si concentra su una sorta di minimalismo estetico e narrativo, su pochissimi elementi e cercando di andare a fondo di questi: da una parte il rapporto tra l’uomo e la silenziosa bimba che ricorda un po’ Chaplin, come Il monello o La febbre dell’oro, la loro ricerca di un posto ancora vivibile, almeno per un po’, dall’altra l’equipaggio della nave che, inconsapevole della situazione sulla Terra, sta costruendo la vita, la sta proseguendo dentro l’astronave. C’è un tratto molto bello nel modo in cui le tre figure femminili – la bambina, l’addetta alle comunicazioni della nave, la donna che Augustine conobbe 30 anni prima e da cui ebbe una figlia – segnano la continuità visiva, emotiva e simbolica del film, che non si appiattisce sul cliché della vita che continua, ma che rende più complesso e misterioso il racconto, la concentrazione della regia sui volti e sulle persone assume tratti quasi surreali.



E a proposito di immagini, The Midnight Sky sembra portare quasi a compimento tutta una serie di riflessioni teoriche su cos’è la cosiddetta “immagine Netflix”, ossia l’equilibrio (già visibile in un film di altro spessore e ambizioni come The Irishman di Scorsese) tra la forza cinematografica di una grande produzione, la necessità di mostrare in qualche modo i budget milionari e dare aria a immagini da grande schermo con il principale veicolo di distribuzione di queste immagini, ovvero la tv che, seppure smart e dai molteplici pollici, non può avere la grandezza e la definizione di un vero schermo cinematografico. La regia di Clooney realizza immagini non troppo “grandi” per una tv o computer e non troppo “piccole” per un cinema, dove il film è uscito seppure in modi molto limitati.

Lascia quindi un po’ perplessi l’accoglienza tiepida o peggio che il film avuto, perché The Midnight Sky, oltre a confermare l’intelligenza del Clooney cineasta, ha dentro una fiducia nel sentimento e nell’emozione, un’umiltà di approccio e una dolcezza disperata che sa superare le convenzioni, le piccole banalità di cui è disseminato. È un film che si muove costantemente tra grande e piccolo, macro e micro, e lo fa in modo sincero, rappresentando – forse involontariamente, ma va bene così – il bisogno di umanità che ci circonda.