Erano arrivati sul punto di sciogliersi, indicazione che già l’uscita del primo e per ora unico disco solista di Matt Berninger, tre anni fa, ci aveva suggerito. Ma hanno deciso di darsi un’altra chance e meno male diciamo. Per quanto la prova autonoma del cantante dei National sia un disco eccellente, quello che questo gruppo (insieme ai Wilco, la più significativa rock band americana degli ultimi vent’anni) sa fare è qualcosa di unico e imperdibile. L’ascolto del nuovo First two pages of Frankestein lo dimostra. I National confermano la loro proposta musicale: approccio minimale, i consueti pattern ritmici, strutture musicali sempre malinconiche (anzi, questa volta decisamente di più).



A cominciare dalla tenue e pianistica Once upon a poolside, che gode dell’accompagnamento vocale di Sufjan Stevens (invero quasi inavvertibile, ma è anche co-compositore del brano) si dipana ancora una volta quel ritratto di un mondo alienato, disorientato, impaurito che la voce dolorante e intensa di Berninger ha sempre saputo narrare. D’altro canto, come dice lui stesso, si sente “emotivamente in lockdown da anni”.



Più significativa la presenza di Phoebe Bridgesm la cantautrice indie simbolo delle nuove generazioni in This isn’t helping e in Your mind is not your friend. Per non dire quella apparentemente inaspettata di Taylor Swift, la regina delle classifiche pop, che Aaron Dessner ha anche prodotto. Il duetto presentato in The Alcott ricorda quanto aveva fatto Nick Cave con Kylie Minogue, portare cioè un artista pop e commerciale nel proprio territorio, desolante e inquietante. La Swift accetta la sfida e si sottomette alla musica del gruppo, conquistata da quanto fanno, e il risultato è splendido.



Eucalyptus ricorda trame conosciute, con le chitarre dei fratelli Dessner che si elevano alte in spazi di siderale trascendenza.

New Order t-shirt (titolo quanto mai evocativo e divertente, nello stile della band, perché trattasi di canzone d’amore e non di un’ode al gruppo inglese) torna in atmosfere rilassate, acustiche.

Per quanto riguarda l’apparentemente bizzarro titolo del disco, Berninger ha spiegato che durante il Covid ha preso per caso in mano il famoso libro, l’inizio, quando il protagonista fa un viaggio vicino al Circolo Polare Artico: “Quell’immagine di essere alla deriva mi ha aiutato a scrivere della sensazione di essere disconnessi, persi e privi di uno scopo”. E’ la cifra artistica del cantante, espressione della depressione, del disorientamento e delle inquietudini dell’uomo del Terzo Millennio ed è per questo che noi amiamo i National: nessun altro gruppo rock oggi ci rappresenta così bene e con tanta toccante commozione. Senza perdere il loro umorismo cinico: “I cannot believe what you get away with/You find beauty in anything”, cantano in This isn’t helping.

Questo disco è più intimo ed essenziale del solito, ma efficace. Canzoni eleganti e introspettive, trame orchestrali, venature post punk e spirito trascendentale. Meno male che i National non si sono sciolti.

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