I Am Easy To Find è il titolo dell’ultimo album di The National, band originaria di Cincinnati, Ohio in circolazione da un ventennio, da quando cioè, tutti residenti a Brooklyn, cominciano a fare musica insieme, per l’appunto nel 1999. Per la verità non è proprio così: il cantante Matt Berninger e Scott Devendorf si conoscono all’università di Cincinnati, mentre il fratello gemello di Scott, Bryan Devendorf, è amico di altri due gemelli, Bryce ed Aaron Dessner. È dopo alcune esperienze musicali giovanili che i 5 formano The National una volta trasferitisi a New York. Al lettore le ricerche su discografia, opere precedenti, età dei membri della band; diciamo solo che non sono dei ragazzini, essendo tutti nati fra il 1971 e il 1976. Dalla nascita della band, venti anni di storia e otto album senza nessun cambiamento nella formazione, imperniata su questo strano incrocio fraterno, i gemelli Devendorf a basso e batteria e i gemelli Dessner a chitarra elettrica e tastiere e, da loro portata ed accompagnata, la spessa e intensa voce baritonale di Matt Berninger.
Eppure anche solo scorrendo le note di copertina dell’album (sì, l’ho acquistato!), si capisce che il progetto musicale The National è molto più ampio. Creativamente si tratta di una specie di collettivo. Riporto testualmente, solo tradotto dall’inglese: “musica di Aaron Dessner e Bryce Dessner, testi e melodie di Matt Berninger, Carin Besser (scrittrice e moglie di Matt) e Mike Mills (regista); arrangiato e suonato da The National; orchestrazione a cura di Bryce Dessner”. Il panorama dunque si allarga, ed anche senza voler fare l’esperto a tutti i costi, con una breve ricerca si scopre che Bryce Dessner è anche un apprezzato compositore classico; che nel disco suona un’orchestra d’archi di 32 elementi, registrati metà a Parigi e metà a New York; che compare una nutrita compagine di musicisti aggiunti; e soprattutto che hanno una importante funzione alcune voci femminili, nei background, ma non solo, impegnate anche in alcune delle melodie principali. Sono Gail Ann Dorsey, Mina Tindle, Sharon Van Etten, Kate Stables, Eve Owen e Lisa Hannigan: una nota solo su quest’ultima, irlandese, il cui bellissimo album At Swim dell’anno passato è stato prodotto e reso magico proprio da Aaron Dessner. In un paio di brani appare anche lo straordinario coro giovanile Brooklyn Youth Chorus.
Insomma, già senza aver ascoltato nemmeno una nota, la cosa pare interessante, come un piatto illustrato da una bella foto in una rivista di cucina o su instagram. Ma nel momento in cui si inizia l’ascolto, è come assaggiare davvero la pietanza. L’esperienza è quella di una semplicità, da una parte, che non è però da intendersi come banalità. Potremmo sintetizzare in una frase: niente di nuovo, tutto di nuovo. Per mantenere il paragone culinario, per una ottima torta di mele non servono ingredienti esotici o super-particolari, ma le giuste dosi. E qui la solida base alternative rock di sempre viene affiancata dalla già presente componente elettronica e da squarci orchestrali che arricchiscono il tessuto sonoro e lo rendono affascinante.
Pausa. Non è stato semplice (e non lo è nemmeno ora) trovare la chiave per scrivere questa recensione. Per descrivere dettagliatamente tutti i brani ci vorrebbe non solo molto spazio, ma molto più tempo per ascoltarli, riascoltarli, farli depositare nell’anima e riprenderli ancora. Sì perché questo è un lavoro intenso, prezioso, in cui le immagini delle liriche, intrise spesso di poesia e letterarietà, vanno lette e rilette; gli arrangiamenti vanno gustati con calma, le melodie semplici, cantate con intensità dalla voce di Matt o dalle voci femminili, creano un fascino, il fascino di musica che non ha fretta e che non va pertanto ascoltata di fretta. E possibilmente in cuffia, ad un buon volume e leggendo i testi (come si dovrebbe fare con tutta la musica che si vuole davvero ascoltare).
Senza quindi andare nel dettaglio di tutte le canzoni, se si vuole individuare un tema che attraversa tutto il lavoro, ecco è quello della vita di una persona tutto sommato ordinaria e delle relazioni a lungo termine che riesce ad intessere e che formano la trama della vita di ciascuno. La copertina dell’album presenta una foto della trentenne attrice svedese Alicia Vikander. Non è solo un’immagine di copertina, il frame fa parte di un cortometraggio uscito insieme all’album, che usa alcune delle canzoni presenti nel lavoro e che attraverso alcune frasi e bellissime sequenze in bianco e nero percorre la vita di una donna, dalla primissima infanzia alla morte, in una sorta di descrizione fra il fisico e l’onirico, i fatti della vita e le sensazioni, i desideri e la realtà. Il video, girato e montato da Mike Mills, è reperibile su youtube e vale la pena vederlo per immergersi ancora di più nell’atmosfera che genera una profonda riflessione sulla vita ed il suo senso, sottofondo costante di tutto l’album.
Mi ripeto, andando verso la conclusione: non posso (e nemmeno voglio) descrivere più di tanto questo album; come tutti i grandi affreschi, necessita di un tempo di ascolto, e come ogni genere musicale, può prendere più o meno, arrivare più alla sensibilità di uno e meno a quella di un altro. Insomma, può anche non piacere. Ma mi si permetta – sperando di non stancare troppo – una descrizione leggermente più approfondita delle tre canzoni che mi hanno affascinato di più.
Riguardo alla title-track I Am Easy To Find il cantante (e autore del testo) Matt Berninger in una intervista a Pitchfork ha dichiarato: “Che cosa fa te veramente te stesso? È una canzone su quanto spesso perdiamo l’idea di noi stessi o non riusciamo a capire cosa stiamo diventando. Ma anche in questa incertezza, tu puoi essere trovato, ed ecco perché non siamo soli. Anche quando sei in quello spazio oscuro, puoi mandare un piccolo messaggio a qualcuno”. La citazione nel testo di una frase appartenente ad una canzone di una band attiva in Ohio a metà degli anni ’90 aggiunge un riferimento alla terra natale, alla nostalgia di casa.
La traccia 10, Not In Kansas, è una canzone di quasi sette minuti, interessante esempio del processo creativo di questa band e degli altri collaboratori. La canzone nasce come brano strumentale, inviato da Aaron Dessner al cantante, che come una specie di flusso di coscienza scrive una ventina di strofe. Il cantante manda poi il risultato (quasi 10 minuti!!) al regista e collaboratore Mike Mills, che in un paio di giorni di lavoro non solo riduce a quattro strofe, ma inserisce l’interpolazione di un’altra canzone di una band californiana degli anni ’80, Noble Experiment dei Thinking Fellers Union Local 282, realizzata però a cappella dalle tre voci femminili di Gail Ann Dorsey, Kate Stables & Lisa Hannigan, come una sorta di sogno a tempo di valzer che appare e scompare fra le frasi della canzone. Ulteriore aggiunta: il titolo Not In Kansas risulterebbe incomprensibile senza sapere che si riferisce alla famosa frase tratta dal film Il mago di Oz: “Toto, I’ve a feeling we’re not in Kansas anymore”divenuta proverbiale ad intendere qualcuno che non si sente a suo agio, come il personaggio di Dorothy quando viene trasportata ad Oz. Ed infatti la canzone è un elenco di situazioni non confortevoli, di posti dove non si vorrebbe essere ma dove la vita ti porta. E questa specie di disconnessione dal presente porta il narratore ad una lista di cose care del passato, musica, film, ricordi dell’infanzia. Un lavoro narrativo e musicale davvero notevole.
Ma per quanto mi riguarda il vero capolavoro musicale è Hairpin Turns. La canzone compositivamente è estremamente semplice, ed al tempo stesso ricca nell’arrangiamento, con quella capacità (presente anche in altri brani) che hanno i National di non far bene intendere subito il centro ritmico, pur nella rilassatezza di una ballata. La melodia delle strofe riposa sulla quinta dell’accordo principale, sorta di continua attesa, per poi risolvere nel ritornello. Le voci femminili impreziosiscono tutta la canzone ed in particolare il finale con delicate armonie. E come al solito descrivere è riduttivo.
IL VIDEO è anch’esso straordinario: i membri della band e le sono ripresi mentre suonano e cantano, ognuno per conto suo, su uno sfondo a campo bianco, come facendo vedere le varie componenti del brano. Ognuno è per conto suo, ma il risultato è comune. Nello stesso campo danza da sola la bravissima ballerina e coreografa israeliana Sharon Eyal, sorta di continuazione del personaggio di Alicia Vikander nel cortometraggio già citato, come se ne fosse il subconscio, l’ombra, che trova qui il suo spazio di espressione.
Potente affresco in bianco e nero, dunque, questo lavoro, con le tinte forti del quotidiano e le domande e le contraddizioni dell’uomo di oggi, i moti dell’anima, il ricordo, il passato ed il futuro. Un album che può diventare davvero affascinante, certo, se incontra il gusto ma soprattutto se gli si dà attenzione e tempo. Non è stato facile, io ci ho provato. E lo ascolterò sicuramente ancora.