La chiave per la comprensione di The Old Oak (nome del pub luogo simbolico della storia) è la macchina fotografica, quella di Yara, la giovane colta siriana profuga di guerra, che si trova catapultata a Murton, uno squallido paesino sul mare nel Nord Est dell’Inghilterra, nella contea di Durham. Con mamma e fratelli viene “accolta” nella cittadina mineraria ormai inesorabilmente decaduta, malgrado le passate lotte dei lavoratori per tenere aperta la miniera, la fonte di vita che aveva dato loro un certo benessere. Ma ora che è chiusa sono poveri e abbandonati, sospettosi e rancorosi nei confronti dei nuovi venuti, che forse li priveranno anche del poco che resta.



Così, quando i rifugiati scendono dall’autobus che li ha portati lì, quella bella macchina fotografica con cui Yara li ha già immortalati, forse per cominciare a conoscerli, irrita immediatamente un paesano intollerante, che la fa cadere a terra danneggiandola. Per la ragazza è un grande dolore, perché è proprio grazie all’obiettivo di quell’apparecchio che ha potuto guardare la realtà in modo da scorgerne la bellezza, anche nella terribile sofferenza della guerra da cui è fuggita e pure ora nella destinazione sconosciuta, con i volti nuovi che ha iniziato subito a fotografare.



C’è però TJ Ballantyne, il triste e solitario gestore dell’unico pub rimasto, appunto The Old Oak, che assiste alla scena e, interpellato dalla giovane, l’aiuta a riparare le fotocamera. Così tra i due nasce un’amicizia rispettosa e aperta alla solidarietà, che sconcerta la maggioranza dei diffidenti concittadini. TJ in realtà è un vedovo depresso, con un figlio che non vuole nemmeno parlargli; sopravvive grazie alla compagnia di Marra, una cagnolina letteralmente “piovuta dal cielo” quando ormai il gestore del pub aveva deciso di farla finita.

Due persone ferite dunque si incontrano, una ragazza rifugiata che non sa neppure se il padre rimasto in Siria sia ancora vivo e un uomo privo di speranza che si fa gli affari suoi, i pochi che gli restano con i vecchi amici a cui serve ogni sera una pinta di birra. Ma Yara, attraverso le foto che “raccontano” la vita degli ex minatori della cittadina, cerca di capire il mondo di chi la ospita e scopre quanto fosse capace di unità e di solidarietà. Così il motto “We eat together, we stick together” (Mangiamo insieme, restiamo insieme), proclamato al tempo degli scioperi contro la Thatcher per difendere il lavoro, si trasforma in un’ispirazione per la nuova convivenza tra siriani ed ex minatori. Viene organizzato un pranzo comunitario nel salone posteriore del pub ormai in rovina, ma recuperato con l’impegno di tutti.



Non è sempre facile abbattere diffidenze e pregiudizi, anzi i vecchi amici di TJ sono proprio i più scettici e addirittura ostili, ma l’impresa sembra riuscire. L’incontro conviviale culmina con una “serata fotografica” accompagnata dalla musica, in cui scorrono le immagini di siriani rifugiati e inglesi locali, colti con la sagacia e l’amore dello sguardo fotografico di Yara, che quasi svela ciascuno a se stesso, in gesti ed espressioni spontanee e autentiche. Paradossalmente il “diverso” scopre il vero volto di ciascuno. Al punto che TJ, certamente non praticante, decide di mostrare a Yara quella che è la radice della loro convivenza: la splendida Cattedrale di Durham, che i loro avi hanno costruito con sudore, impegno e dedizione convinta.

La ragazza rimane affascinata, tanto da favorire la tessitura di uno stendardo intitolato a The Old Oak (la vecchia quercia) che i rifugiati regalano agli inglesi per partecipare alla sfilata per la festa annuale dei minatori. Non importa se nel frattempo qualcuno ha tradito e il nuovo locale restaurato per i pranzi comuni si allaga e diventa inagibile. Ormai è chiaro che bisogna coltivare la speranza, anche e soprattutto nelle avversità. Del resto la Provvidenza agisce in modo misterioso e non abbandona mai. Così TJ, a cui alcuni scapestrati del luogo hanno ucciso la cagnolina e che per la seconda volta vorrebbe darsi per vinto consegnandosi al mare, viene “salvato” proprio da un evento doloroso. Quando sta per accadere l’irreparabile, lo avvisano che è giunta la notizia della morte del padre di Yara, prigioniero in Siria. Ballantyne non può a questo punto abbandonare la ragazza e la sua famiglia, e decide di condividere il loro dolore.

La partecipazione al lutto diventa contagiosa. Tutti gli abitanti della cittadina, uno dopo l’altro, ciascuno a suo modo con un fiore o un piccolo dono, raggiungono la casa di Yara e dei suoi cari. Una scena profondamente commovente, che svela come dal dolore e dal mistero della morte possa nascere qualcosa di nuovo, persino un’amicizia inaspettata. Insomma, c’è uno sguardo aperto su di sé e sugli altri che si impara nella sofferenza e grazie alla bellezza (le fotografie di Yara e la sacralità della magnifica cattedrale di Durham, uno dei gioielli del Medioevo inglese). Non a caso la scena finale è una processione con tutti gli stendardi, compreso quello di The Old Oak, dove campeggiano le parole Forza Solidarietà Resistenza.

Scopriamo così da dove viene la capacità di comprenderci e amarci che ci viene svelata con l’annuncio del Natale. La fiumana di gente in processione ritrova il senso della propria esistenza e la gioia di partecipare a una vita insieme. Dunque il regista Ken Loach, che nei suoi film si è sempre preoccupato innanzitutto di una denuncia politico-sociale, in quest’ultima opera riconosce che occorre affidarsi alla forza della speranza, che ha la sua radice in una dimensione profondamente spirituale.

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