Negli ultimi anni più che mai, il cinema di Abel Ferrara è diventata una questione personale, intima, di analisi interiore e condivisione familiare, a partire dal documentario del 2017 Alive in France che descriveva una serie di concerti tenuti con amici e familiari. Il Torino Film Festival di quest’anno ospita il regista con due film, Tommaso e The Projectionist, che dimostrano in modi e con risultati diversi, questo suo bisogno.
Se il primo è una descrizione tanto sincera quanto traboccante narcisismo denigratorio della sua vita negli ultimi – fatta interpretare da Willem Dafoe – tra sesso, rovelli interiori e deliri mistici, con i veri familiari e i veri luoghi in cui oggi vive Ferrara (ovvero l’Esquilino a Roma), il secondo è invece un piccolo spaccato meno ambizioso ma decisamente più interessante, un documentario sulla persona di Nicolas Nicolau, un uomo che da Cipro è volato fino in America dove è diventato uno dei pochi proprietari di cinema a New York a voler sfidare le grandi catene immobiliari.
Il film racconta la passione per il cinema come arte e come business da parte di un uomo comune che, coerentemente con il sogno americano, è diventato qualcuno in virtù delle proprie forze e del proprio lavoro, lottando contro le perversioni del capitalismo e del neo-liberismo. Soprattutto Ferrara è interessato a Nicolau come testimone dell’evoluzione del cinema, inteso come sala cinematografica, dagli anni ‘60 ai giorni nostri, la fine degli studios e delle grandi produzioni, i sogni infranti della new Hollywood, il boom del porno e la crisi, fino ai tentativi quasi eroici di rinascita.
Ferrara lo testimonia con le parole di Nicolau e con le immagini dei film che nei suoi cinema sono passati fino ad arrivare, senza troppo costrutto, ma con genuina curiosità, a interrogarsi sull’oggi, su cosa significa andare al cinema oggi per i nuovi spettatori, per i ragazzi, e cosa significhi una sala per la vita di un quartiere. È un piccolo affresco che colpisce per la sua vitalità, per l’onestà e per l’amore che comunica verso il film come oggetto.
Quello che lo rende ancora più interessante è anche il modo in cui Ferrara se ne appropria e lo rende parte di quel percorso personale: The Projectionist non parla del regista, non è un racconto in prima persona sebbene condivida quella passione col protagonista, ma il modo in cui il regista realizza il film lo rendono qualcosa di simile a un film “familiare”: praticamente senza preparazione, riprendendo interviste e situazioni in modo pressoché improvvisato e spontaneo, facendo finire sé, la moglie e la figlia, i suoi collaboratori dentro le riprese, rendendo l’imprevisto parte stessa del modo di concepire il cinema.
Dopo la riabilitazione da droga e alcool (raccontata per interposta persona proprio da Tommaso), il cinema per Ferrara è un modo di incontrare altre persone per capire se stesso e viceversa. The Projectionist lo fa con una leggerezza di toni e una vicinanza a soggetti e temi raccontati in grado di aiutare anche lo spettatore in questo percorso di comprensione.