“Ascolta Andrew, non stiamo facendo Sticky Fingers parte seconda” sembra abbia detto Mick Jagger al produttore del loro nuovo disco. “Ogni produttore che lavora con noi” ha aggiunto “cerca sempre di rifare il nostro disco che hanno amato di più”. Niente paura Mick: le canzoni che scrivevate a quei tempi non siete più in grado di scriverle oggi. Hackney Diamonds scivola via infatti come era già successo con il loro ultimo album in studio, Blue & Lonesome, raccolta di cover di blues: due prodotti patinati, ben suonati, di classe innegabile (possono Mick Jagger e Keith Richards, quello che resta dei Rolling Stones originali, fare un brutto disco? Ovviamente no), ma senza un colpo di reni, un brano che spicca su tutti, che lasci il segno. Sweet Sounds of Heaven potrebbe essere quel pezzo, ma in fondo si tratta di mestiere e niente più. Il brano che emoziona in realtà c’è, è alla fine, se riuscite ad arrivarci, si intitola Rolling Stone Blues, è il classico di Muddy Waters che li ispirò per il nome da darsi, è suonato da Keith Richards che usa una fantastica Gibson degli anni 30 accompagnando Mick Jagger alla voce e all’armonica. Un bluesaccio malandato, in cui i due anziani amici si auto celebrano con un tocco di tenerezza: “Well my mother told my father just before I was born She said “I got a boy child coming, he’s gonna be, he’s gonna be a rolling stone, gonna be a rolling stone, gonna be a rolling”.
Un plauso allora ad Andrew Watt, un tizio che è passato dal lavorare con Camila Cabello, Justin Bieber e Dua Lipa a un nuovo ruolo di produttore dell’aristocrazia del rock: Ozzy Osbourne, Elton John, Iggy Pop e Paul McCartney (a quanto pare è stato proprio l’ex Beatle a raccomandarlo agli Stones). C’era da aver paura, dopo che aveva fatto usare l’autotune a Ozzy Osbourne, ma ha capito che la gente vuole che gli Stones suonino come gli Stones (nessuno scivolone quindi come successo nel 1997 quando vennero impiegati i Dust Brothers e Danny Saber in Bridges to Babylon per essere “moderni” inseguendo il trip hop). Watt poi ha fatto di più, o glielo hanno concesso Jagger e Richards in evidente crisi creativa: ha collaborato alla composizione di tre pezzi – Angry, Get Close e Depending on you – e pur rispettando lo spirito della band ha creato un suono lucido, levigato e compatto decisamente radiofonico senza quindi resuscitare morti dalle tombe, anche se Lady Gaga è inevitabilmente imbarazzante quando si sforza in ogni modo di assomigliare a Merry Clayton, la leggendaria cantante ospite di Gimme Shelter, in Sweet Sounds of Heaven. Lady Gaga a parte, gli ospiti famosi presenti nel disco stanno in disparte e sembra siano contenti così: McCartney contribuisce con una linea di basso insolitamente distorta, potente e rumorosa in Bite my head off, un pezzo dal poderoso tiro punk che forse è il migliore del disco; Elton John e Stevie Wonder restano attaccati allo sgabello del pianoforte.
È un disco che spara i pezzi uno via l’altro carichi di energia e potenza, con il volume al limite della distorsione, insomma per sembrare dei ventenni. Ma le autocitazioni si sprecano: nei riff sempre uguali, nella cascata di chitarre in Driving too hard che sembra l’attacco di Tumbling Dice mentre Dreamy Skies è apparentemente una scalcinata ballata country che vorrebbe fare il verso ai fasti di Dead Flowers o Sweet Virginia ma non ci riesce neanche lontanamente.
Lascia interdetti anche lo spazio usualmente dedicato a Keith Richards. Con un meraviglioso disco solista, il suo ultimo, dietro le spalle< con Tell me straight sforna la sua usuale slow ballad ma che fastidio quei suoni di chitarra moderni e stridenti. E Charlie Watts? E’ presente in due brani, Mess it up e Live by the sword, ma non ti accorgi della differenza con Steve Jordan tanto tutto in questo disco è omologato. Il primo un funk dall’incedere quasi dance, brutto e banale, la seconda un bel rock’n’roll insolente in cui Jagger tocca “vertici” di lirismo imbarazzanti per un 80enne: “If you live like a whore better be hardcore”…
“Come finiamo?” supplica Richards su Tell Me Straight, una domanda alla quale Hackney Diamonds dà una possibile risposta enfatica. Con la mortalità che incide sui loro pensieri dopo la scomparsa di Watts, non ci si poteva aspettare che un disco come questo, una botta di vita che nulla toglie e nulla aggiunge alla storia della più grande rock’n’roll band del mondo. Come ha detto una volta Mick Jagger, “fai un disco nuovo e quando ti esibisci dal vivo ti limiti a suonarne uno o due pezzi, perché la gente vuole sentire i tuoi brani famosi”.
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