Che bello ritrovarli così. Ancora vivi sulla strada, ancora ostinatamente all’avanguardia, come sempre. Più di sempre. Dopo anni di silenzio, distanze, e una pandemia di mezzo che ha inaridito tutti (o chi gliel’ha permesso), trovarsi di fronte a una bellezza così è una boccata d’aria.
Il duo Thom Yorke e Johnny Greenwood – cuore pulsante dei Radiohead, oggi insieme al batterista Tom Skinner in questo nuovo progetto chiamato The Smile – torna nelle Marche nello splendido scenario dello Sferisterio di Macerata per farci ascoltare la loro prima fatica: A Light for Attracting Attention.
Li ritroviamo ancora bambini nell’entusiasmo e la passione indomita che hanno per la musica, ma mai fuori dal tempo, dalla (loro) storia e dai loro anni al contrario di molti mostri sacri del rock che decidono di non invecchiare e quindi invecchiare malissimo inseguendo i fasti del passato. Ritroviamo quella consapevolezza di aver bisogno di suonare per sé (e quindi anche per gli altri), senza avere mai la preoccupazione di compiacere il pubblico, senza l’assillo di deludere i fan storici. È forse questa la loro forza? L’esigenza di auto sabotarsi ogni volta che si pensava di averli finalmente inquadrati e capiti, l’esigenza di rimettersi in gioco e riprendere la salita montando sui pedali quando la strada era totalmente in discesa e le sirene del grande pubblico arrivavano tanto suadenti quanto minacciose.
The Smile è un concentrato dell’essenza Radiohead, come se avessero strappato e strizzato il cuore alla band dell’Oxfordshire. Un cuore che è ricerca perenne, esigenza di sperimentare, trovare nuove strade, nuovi paesaggi da attraversare ma sempre per tornare a casa.
Ieri quasi due ore di musica senza capire bene a cosa si stesse assistendo. In alcuni momenti sembrava di trovarsi in un club intimo ad ascoltare jazz, in altri la violenza punk faceva saltare il culo anche sulle sedie dello sferisterio, poi brandelli disseminati di rock’n’roll, quello genuino e fresco degli esordi, poi la loro amata elettronica (tanta elettronica) che solo loro sanno rendere così calda e tenera, fino a passaggi di progressive puro (negli ultimi pezzi inediti sembrava di essere di fronte ad una sorta di Genesis 3.0).
Un caleidoscopio di generi, suoni, architetture armoniche vertiginose, il solito miracolo musicale che nasce quando due geni si incontrano. Un’amicizia nata alla fine degli anni 80 e mai venuta meno. Sul palco i due si scambiano in continuazione basso, chitarre, tastiere, sintetizzatori con lo stesso gusto e disinvoltura con il quale appena diciottenni si trovavano insieme a sperimentare nei garage di Oxford. Il palco sembra una porta spalancata su quel garage, una lente di ingrandimento sul processo compositivo della loro musica che riaccade live, lì, in mezzo a noi.
I The Smile non si esibiscono, fanno musica. Per coinvolgere il pubblico non hanno bisogno di saltellare in mezzo alla gente o chiamare qualche signorina in lacrime sul palco, scommettono tutto sulla loro musica e più sono presi più afferrano chi li ascolta. Nell’atmosfera mistica che avvolge le gradinate le linee melodiche si disperdono. È una sensazione tanto fastidiosa quanto seducente, tale e quale a quella che accade ai live di Bob Dylan (artisti così diversi eppure così vicini): sei stanco, arrabbiato, affaticato e ti sembra di aver bisogno solo di dimenticare e allora hai la tentazione di usare la musica per distrarti, vorresti andare lì a passare qualche ora spensierata cantando a squarciagola con una birra in mano tutti i successi che conosci a memoria e invece il tuo idolo fa a pezzi ogni tuo riferimento, distrugge le tue sicurezze insieme a tutte le melodie e le ricompone lì sul palco come a dirti: “vieni con me, andiamo oltre, facciamo questo viaggio insieme”. Ed è bellissimo per l’ascoltatore aggirarsi con il lanternino per ritrovarne alcune tracce di melodia, come oasi in un deserto.
I The Smile infatti non abbassano mai l’asticella, quasi sfiancante rincorrerli e non concedono nessuno spazio alla nostalgia stagnante, quella che fa prigionieri e non fa camminare. Nessun pezzo dei Radiohead, nessuno spazio per le hit del passato. “Noi facciamo musica ora, siamo vivi ora. E abbiamo questo da dirvi”.
Come al solito, con loro devi lasciarti andare per goderli veramente, lasciare tutti gli ormeggi, rinunciare a pretendere di capirli per lasciarti ferire, come si fa di fronte ad un’opera d’arte, ad un quadro astratto, o di fronte a un Goya o a un Kandinskij. Non si capisce se non con il cuore. Cuore e cervello, perché non siamo robot ma nemmeno spiriti. I nostri raccontano storie senza spiegare nulla, perché in fondo non le hanno capite nemmeno loro e sono lì piegati sul basso o sul synth che cercano una ricognizione insieme, con te.
Grazie Thom e grazie Johnny. Grazie di essere ancora ostinatamente sulla strada insieme a noi.
Perché “we don’t know what tomorrow brings”.