La Montagna incantata di Thomas Mann è un classico per ogni tempo che si attaglia particolarmente al nostro. L’attuale pandemia esalta infatti il grandioso romanzo che ci appare, a distanza di un secolo, come la diagnosi (descrittiva) di una civiltà malata. I sintomi sono: uno stato febbrile cronico, con temperatura corporea costantemente al di sopra dei 37,5 gradi, inguaribili tossi, crisi respiratorie e collassi polmonari. I fatti narrati coprono un arco di tempo di 7 anni, dal 1907 al 1914: dal canto del cigno della Belle Époque allo scoppio della prima guerra mondiale. Il libro fu invece scritto tra il 1912 e il 1924, un periodo molto lungo e significativo sia per la storia personale dell’autore sia per quella della Germania.
L’inizio del racconto è simile al decollo di un aereo. In poche pagine e con alcune sapienti mosse il narratore sbalza il lettore dal “piano” alla “montagna”. Dall’uggia delle morbose nebbie amburghesi – la terra natia del protagonista Hans Castorp, il giovane (e indeciso) ingegnere navale la cui vicenda si dipana e cresce con l’Opera stessa – alle altezze delle alpi svizzere. Hans Castorp è un nome costruito magistralmente dall’autore. Hans, il popolare nome tedesco, rinvia al Vangelo di Giovani e al battesimo della Germania evocato all’inizio della narrazione dalla ciotola d’argento che era servita per il battesimo dello stesso Hans e del nonno. Castorp è invece il cognome di una nota famiglia di imprenditori di Lubecca, città natale di Mann. Il risultato di tale somma è di facile interpretazione: la crisi spirituale del giovane ingegnere recatosi al sanatorio per una breve visita al cugino Joachim, per poi scoprirsi anch’egli malato e rimanervi per sette anni, è la rappresentazione letteraria della crisi che travolge la borghese e cristiana Germania alla fine del secolo XIX e all’inizio del successivo.
Il romanzo è ambientato a Davos, nei grandi padiglioni, nelle prestigiose sale, nelle camere e nei porticati all’aperto del Berghof, l’elitario sanatorio punto di riferimento della grande borghesia mondiale, dal Messico alla Russia. Si tratta di due luoghi simbolici: le estreme propaggini di occidente e oriente nei confronti delle quali la Germania – simbolicamente rappresentata dai due cugini (un ingegnere e un soldato) – è una sorta di terra di mezzo, né oriente né occidente.
Per tutti i personaggi l’ingresso al Berghof coincide con la perdita di consistenza della realtà. Il tempo diventa aleatorio: pochi minuti possono sembrare anni e viceversa, mentre le stagioni sconfinano una nell’altra. L’eros censurato dalla civiltà puritana si maschera da malattia, la morte – sempre incombente nel sanatorio – non si materializza mai, perché i cadaveri – senza alcun rito funebre – vengono portati via nella notte, oppure di sottecchi, all’insaputa dei ricchi pazienti. All’inizio il libro voleva essere una parodia delle lussuose cure sanatoriali, una critica divertita della “cura dello sdraio” riservata ai pochi facoltosi che se la potevano permettere. Ma al di là di ogni aspettativa dello stesso autore il racconto assume le fattezze di un grande affresco, che per alcuni critici coincide con l’insuperata raffigurazione della cultura dell’epoca. Il romanzo fa emergere un certo lato del mondo borghese, estremamente bisognoso di illusioni e di magia – La montagna magica è infatti la traduzione più corretta del titolo (Der Zauberberg) – dove i protagonisti possano rifugiarsi, sospendendo ad libitum le proprie esistenze. Le trasgressioni non sono ammesse. Chi si avventura “al piano” è destinato a pagare il proprio capriccio a caro prezzo, con gravi pleuriti, polmoni sibilanti o rigonfi a palloncino, importanti recidive della tubercolosi o addirittura con la morte.
In altre parole, Mann si accorge – come già in altri romanzi – che l’ideale di vita borghese non tiene. La vita borghese, con le sue industrie, le sue chiese e i suoi eserciti, non è davvero abitabile. Serve un distacco, che per l’autore è rappresentato da una concezione aristocratica dell’arte che egli aveva rintracciato in Nietzsche come massimo critico dell’inconsistente ottimismo borghese. L’ideale estetico dell’arte afferma la necessità per l’artista di rimanere “sospeso”, di non prendere partito, di guardare dall’alto, con distacco, le vite dei protagonisti dei propri racconti e anche se stesso come attore tra gli altri in commedia.
Tali sono le convinzioni di Mann quando nel 1912 inizia la scrittura del romanzo, ma come è già stato annotato, l’incubazione dell’opera fu lunghissima. Presto vennero la guerra e la sconfitta, i trattati di pace e la Repubblica di Weimar con le sue convulsioni, compreso il primo affacciarsi del nazismo, di cui al termine della Montagna incantata Mann tratteggia una satira spietata. Descrivere la trasformazione dell’autore avvenuta tra l’inizio e la pubblicazione del romanzo richiederebbe un saggio a parte, tuttavia già in uno dei capitoli conclusivi intitolato Neve (forse il più lirico dell’opera e a parere di chi scrive la vera conclusione e lascito del libro) Mann regala al lettore la folgorante visione di tale cambiamento. Travolto da una bufera di neve durante un’escursione solitaria, Castorp trova riparo in un rifugio di fortuna. Stremato dalla fatica si addormenta e sogna di trovare salvezza scendendo “al piano”. Gli odori di un bosco durante la pioggia lo inebriano, poi come volando vede il paesaggio degradare lentamente sino al mare. Un mare lontano. Un mare del sud. Forse una spiaggia della Sicilia, dove una gioventù operosa e pacifica è intenta in un’opera di rifondazione civile. Risvegliato dalla tormenta, Castorp scopre che il suo sogno è durato solo pochi minuti, mentre aveva pensato di vivere un periodo lunghissimo, misurabile in anni.
Un tempo indefinito che nel romanzo viene quantificato in sette anni, è servito a Castorp per ridefinire dentro di sé i parametri di una civiltà nella quale impegnarsi senza riserve, ponendo fine alla propria indecisione ammantata d’estetismo. Con Castorp, nei confronti del quale il narratore non ha mai nascosto la propria simpatia, anche Mann trova la strada per “scendere dalla montagna”, abbandonare l’ideale estetico e dichiarare a chiare lettere quale civiltà goda della sua predilezione. Prendere partito significa non fermarsi alla diagnosi, ma prendersi la briga di indicare una cura possibile. Perché una diagnosi non è un giudizio estetico, ma storico-pratico e comporta, per il paziente come per il curante, la responsabilità di assumersi il lavoro che ne consegue.