Ci sono due elementi apparentemente opposti che definiscono bene il target su cui si fonda l’intera operazione Thor: Love and Thunder, quarto film Marvel Studios dedicato al dio nordico e secondo diretto da Taika Waititi dopo Ragnarok: il primo è la costante presenza dei Guns ‘n’ Roses nella colonna sonora (composta da Michael Giacchino, ma curata da Dave Jordan nella scelta delle canzoni), il secondo vede verso il finale il passaggio di consegne dagli eroi ai bambini come futuro dell’universo e vero punto di riferimento dell’intero ciclo e del relativo merchandising.



Quindi, da una parte abbiamo l’occhio strizzato ai 40/50enni che forse sono rimasti alla loro adolescenza (il pubblico per eccellenza della cultura pop contemporanea) e a cui il rock da stadio della band americana ancora fa venire qualche brivido e, in effetti, l’ingresso in battaglia di Thor con Welcome to the Jungle fa un certo effetto; dall’altra, i figli di quegli adulti che gradiscono l’intrattenimento, ma soprattutto vogliono farne parte a pieno titolo, non vogliono più sognare i supereroi, ma esserlo. Pura Disneyzzazione del marchio e non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che l’obiettivo è un passo indietro contraddittorio rispetto a quanto fatto da Waititi (che scrive assieme a Jennifer Kaytin Robinson) con il film precedente.



Qui Thor (Chris Hemsworth) si trova a dover affrontare Gorr (Christian Bale), divenuto sterminatore di dei dopo la morte della figlia e l’entrata in possesso di una Necrospada. Il figlio di Odino non sarà solo, infatti accanto a lui troverà di nuovo Jane (Natalie Portman), amore di un tempo oggi malata di cancro che userà il potere del Mjolnir per cercare di guarire, salvando il mondo, nel frattempo.

Thor: Love and Thunder è un film su dei in lotta tra loro, esseri che diventano deicidi e umani che aspirano al ruolo divino, ma Waititi sembra mettere tutto in secondo piano e concentrarsi esclusivamente sul lato umoristico che era la cosa più trascinante di Ragnarok, il quale però era un film comico, in cui le gag non erano alleggerimento ma un elemento di costruzione del racconto e del rapporto con lo spettatore, anche in senso emotivo; nel nuovo film, il regista neozelandese – l’unico a mantenere oggi un proprio tocco personale dietro la camera in un film Marvel – invece sembra spostarsi verso la parodia, verso il gioco apparentemente facile del prendere una situazione canonica e ribaltarla di segno (raramente di senso), sperando basti questo a far ridere.



Certo, ci sono padri nobilissimi per operazioni del genere, da Mel Brooks a Zucker-Abrahams-Zucker fino a salire ai Monty Python, registi e interpreti per cui la parodia era anche uno sguardo sul cinema e sul mondo che ne faceva emergere le contraddizioni; ma non è questo il caso, purtroppo qui lo sforzo per far ridere sostituisci la costruzione della risata, l’intento non basta a colpire l’obiettivo e l’ispirazione si limita a un umorismo che aduli lo spettatore bambino e sollazzi quello che non ha voglia di crescere.

È una questione di armonia compositiva, equilibrio e tessitura delle parti, quasi perfetto in Ragnarok, continuamente inceppato in Love and Thunder, come il suo ritmo, come lo spettacolo ai minimi termini, come il senso di ciò che avviene. Il lavoro – discutibile, ma consapevole e nei suoi limiti riuscito – del film precedente è qui ridotto a pernacchia e puzzetta, a uno spoof movie in cui tutti sono idioti e tanto basta. Magari è vero a otto anni, altrimenti dopo un quarto d’ora si annaspa.

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